LA FOTOGRAFIA
Storia di partigiani: Maria Codazzi e Giuseppe Comi
«Papà dove sei? È ora di cena.»
«Sono qui in camera.»
«Cosa fai qui tutto solo al buio? Non stai bene?»
«No, no sto bene. Sto solo pensando.»
«A cosa stai pensando?»
«Che dopodomani è il 25 Aprile.»
«Ma viene tutti gli anni il 25 Aprile. E perché adesso ridi?»
«Perché hai detto una cosa bella: prima o poi viene sempre il 25 Aprile!»
Eccomi qui a Berlino, come uno scherzo del destino. Sono qui con mio figlio e penso che in fondo sto bene. Dall’Italia mi sono portato con me qualche ricordo, i volti dei compagni e pochi rimpianti. Il ricordo più forte che mi accompagna è questa fotografia, a cui sono molto legato perché è l’unica che ho del periodo in cui sono stato sappista. Sappista della 105a Brigata Garibaldi, VII distaccamento fiume Adda.
Maria e Giuseppe
Io ho cominciato a combattere i tedeschi nel 1942, quando, allora avevo diciotto anni, lavoravo a Milano in una fabbrica di biciclette di via Melzo. Lì ho conosciuto uno “strano” signore che era addetto alla pulizia dei locali della fabbrica. A mezzogiorno ci si fermava e si parlava… beh, dopo qualche tempo ho scoperto che questo signore era un docente universitario, scacciato dai fascisti perché era un anarchico. Noi che eravamo cresciuti prima come Balilla e poi come Avanguardisti, sentire parlare questo signore di libertà, democrazia, antifascismo, cose per noi impensabili, per noi era un sogno. Quell’incontro ha cambiato la mia vita e quella di altri due miei compagni: una ragazza e un ragazzo di 16 anni con i quali entrai, con tutta la passione della mia età, in una cellula anarchica. Eravamo giovani, ma pieni di coraggio; il professore ci consigliava e ci guidava e le nostre azioni consistevano per lo più nella distribuzione di volantini agli operai, davanti agli stabilimenti, e ai soldati, davanti alle caserme, per dire loro di disertare, perché quella guerra non era la nostra guerra ma era la guerra del fascismo, la guerra dei padroni, e che mandavano al massacro proletari e figli della povera gente. Facevamo le nostre azioni in bicicletta, prestando molta attenzione, perché era molto pericoloso: se i fascisti ci avessero sorpresi e catturati rischiavamo la fucilazione. Spesso consegnavamo i volantini in mano a chi usciva per primo dagli stabilimenti e dalle caserme e poi, alla fine, buttavamo per strada quello che rimaneva del pacco proprio per evitare di essere individuati. Nel 1943 sono cominciate a cadere le bombe su Milano. Una notte ci fu un bombardamento più violento del solito e, al mattino successivo, quando arrivai al lavoro, il professore non c’era. Preoccupati, siamo andati a vedere a casa sua, a Milano in via Poerio. Purtroppo il palazzo non c’era più: al suo posto un grosso cumulo di macerie. Il professore, il nostro compagno, il nostro insegnante di vita era rimasto sotto le bombe. La disperazione e le lacrime agli occhi non ci hanno impedito, a me e ai miei compagni, di salire su quel cumulo di macerie e di cantare una bellissima canzone in suo onore: “Le porte di Milano son sempre chiuse, ma quando le riapriremo rivoluzion faremo”.
Quel canto ha rappresentato per me un impegno e un giuramento a intensificare con ogni mezzo la lotta al fascismo. La data che segna il passaggio dalla distribuzione di volantini all’azione diretta e alla guerriglia è l’8 settembre 1943, il giorno dell’armistizio. Allora io ero militare a Colmino, in Friuli Venezia Giulia, e alla notizia, insieme ad altri compagni, sono tornato a Cernusco a piedi, evitando treni e stazioni presidiati dai tedeschi. Poi, per non essere costretto a indossare la divisa militare sotto i fascisti di Salò, sono andato a lavorare per la TODT vicino a Sanremo, dove, con altri compagni, ho fatto azioni di sabotaggio. Scoperti dai tedeschi, siamo fuggiti per non essere deportati in Germania. Purtroppo, durante la fuga, due compagni sono stati presi e di loro non ho saputo più nulla. Tornato a Cernusco al termine di un viaggio avventuroso, entro a far parte della 105a Brigata Garibaldi, VII distaccamento fiume Adda, che operava fino a Cassano e Vaprio. La guerra nelle città e nelle campagne era diversa da quella che si combatteva in montagna: tra i boschi e nelle valli i nostri compagni soffrivano fame e freddo, ma in combattimento avevano il nemico di fronte; noi, in città, avevamo il lavoro (necessario per mascherarci e vivere), una casa, pasti caldi, ma le azioni, fatte di pedinamenti, tranelli, imboscate, erano pericolose e richiedevano la massima attenzione e freddezza. Tante sono state le azioni a cui ho preso parte, ma voglio ricordare proprio quella di questa foto, l’unica che ho di quegli anni. In questa foto siamo io e Maria, una staffetta partigiana che poi ho sposato. Con Maria ci siamo conosciuti durante la Resistenza, suo fratello faceva parte del nostro gruppo, abbiamo fatto tante azioni insieme, dopo poco tempo aveva già coinvolto anche la sorella. Maria è così diventata staffetta partigiana, molto coraggiosa e determinata come spesso sanno esserlo le donne; insieme siamo andati tante volte a Empoli a portare il testo dell’«Unità» che poi là veniva stampata, viaggi in treno di tante ore, non come ora, ma eravamo molto motivati e pronti anche a faticosi trasferimenti.
La foto ha una strana storia: siamo in corso Buenos Aires a Milano, nel gennaio 1945. In quel periodo la situazione non era semplice: l’inverno, la fame, la fine che non arriva. Il comando di Milano allora decide di forzare la mano, fare qualcosa di grosso, che sollevi il morale. Vengono mobilitati i migliori sappisti per dei comizi volanti in alcuni cinema di Milano. Io con molti altri sono assegnato al cinema Pace, in corso Buenos Aires. Siamo entrati, eravamo una ventina, all’entrata ci mandavano dentro dai gabinetti, siamo entrati quattro alla corsia di là e quattro alla corsia di qua, sul palco un nostro oratore con altri quattro e abbiamo fatto un comizio. La prima cosa che abbiamo detto è stata: «Se c’è un fascista in sala non spari se no qui facciamo una strage!». Avevamo tutti gli sten puntati, abbiamo fatto il comizio… e gli abbiamo detto di contare fino a duecento senza muoversi. Finito tutto, dritti verso l’uscita, dove c’erano cinque ragazze con gli spolverini e le borse, pronte a nascondere le armi. Sì, perché le donne nella Resistenza a volte erano più determinate degli uomini, erano tremende. Una volta usciti ci dividiamo, io e Maria andiamo per Corso Buenos Aires. A Milano allora quando andavi nelle vie maggiori trovavi i fotografi che ti facevano la fotografia all’improvviso, poi ti davano il biglietto e se volevi andavi a ritirarla. Il fotografo ci ha fatto questa fotografia e io ho detto subito «Ritiriamola mica che dopo la mettono in vetrina e chi lo sa chi andava a vedere». Insomma il giorno dopo siamo andati a ritirarla e ci è restata. Oggi mi viene da ridere… ma allora…
Oggi, oggi, eccomi qua a Berlino: è strano emigrare dopo gli ottant’anni e per giunta in Germania. Qui c’è mio figlio e mia nuora. Mi vogliono bene, ma nel cuore mi è rimasta l’Italia.
Ricordo gli ultimi anni a Cernusco. Vivevo in un piccolo appartamento che si affacciava su un cortile. Una volta le case le costruivano così: uscivi e incontravi quelli di fronte, adesso invece le fanno in modo che ti rinchiudi e non conosci nessuno. Era venuta ad abitare una famiglia di emigranti dalla Romania. Qualcuno li guardava con diffidenza. Io ho fatto subito amicizia, erano brave persone, lavoratori. I bambini giocavano in cortile e mi facevano compagnia. Ho anche insegnato loro a parlare un po’ l’italiano.
Ho viaggiato, ho visto un po’ il mondo: non ci sono razze buone o cattive, ci sono gli uomini e basta. Il male e il bene stanno dappertutto. A Cernusco stavo bene, ma negli ultimi tempi, per l’età, gli acciacchi si facevano sentire come la solitudine. Avevo conosciuto un gruppo di ragazzi che si erano avvicinati all’ANPI, eravamo rimasti solo io e l’Aurelio della vecchia guardia, alcuni morti, altri si erano allontanati, non c’era stato ricambio. Poi questi ragazzi: curiosi, preparati, entusiasti. Adesso tocca a loro. Ogni tanto li sento per telefono. Sono bravi, non s’arrendono, tengono duro, resistono, ognuno a modo suo.
Giuseppe Comi, nato a Vimodrone nel 1924, crebbe a Cernusco. Entrato nella 105a Brigata Garibaldi, prese parte a diverse azioni partigiane a Milano e non solo. Nel luglio 1944 fu tra coloro che parteciparono alla liberazione del sindacalista Roveda dal carcere degli Scalzi a Verona. Ci ha lasciato nel dicembre 2011.