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LA FOTOGRAFIA

Storia di partigiani: Maria Codazzi e Giuseppe Comi

«Papà dove sei? È ora di cena.»
«Sono qui in camera.»
«Cosa fai qui tutto solo al buio? Non stai bene?»
«No, no sto bene. Sto solo pensando.»
«A cosa stai pensando?»
«Che dopodomani è il 25 Aprile.»
«Ma viene tutti gli anni il 25 Aprile. E perché adesso ridi?»
«Perché hai detto una cosa bella: prima o poi viene sempre il 25 Aprile!»

Eccomi qui a Berlino, come uno scherzo del destino. Sono qui con mio figlio e penso che in fondo sto bene. Dall’Italia mi sono portato con me qualche ricordo, i volti dei compagni e pochi rimpianti. Il ricordo più forte che mi accompagna è questa fotografia, a cui sono molto legato perché è l’unica che ho del periodo in cui sono stato sappista. Sappista della 105a Brigata Garibaldi, VII distaccamento fiume Adda.

la fotografia

Maria e Giuseppe

Io ho cominciato a combattere i tedeschi nel 1942, quando, allora avevo diciotto anni, lavoravo a Milano in una fabbrica di biciclette di via Melzo. Lì ho conosciuto uno “strano” signore che era addetto alla pulizia dei locali della fabbrica. A mezzogiorno ci si fermava e si parlava… beh, dopo qualche tempo ho scoperto che questo signore era un docente universitario, scacciato dai fascisti perché era un anarchico. Noi che eravamo cresciuti prima come Balilla e poi come Avanguardisti, sentire parlare questo signore di libertà, democrazia, antifascismo, cose per noi impensabili, per noi era un sogno. Quell’incontro ha cambiato la mia vita e quella di altri due miei compagni: una ragazza e un ragazzo di 16 anni con i quali entrai, con tutta la passione della mia età, in una cellula anarchica. Eravamo giovani, ma pieni di coraggio; il professore ci consigliava e ci guidava e le nostre azioni consistevano per lo più nella distribuzione di volantini agli operai, davanti agli stabilimenti, e ai soldati, davanti alle caserme, per dire loro di disertare, perché quella guerra non era la nostra guerra ma era la guerra del fascismo, la guerra dei padroni, e che mandavano al massacro proletari e figli della povera gente. Facevamo le nostre azioni in bicicletta, prestando molta attenzione, perché era molto pericoloso: se i fascisti ci avessero sorpresi e catturati rischiavamo la fucilazione. Spesso consegnavamo i volantini in mano a chi usciva per primo dagli stabilimenti e dalle caserme e poi, alla fine, buttavamo per strada quello che rimaneva del pacco proprio per evitare di essere individuati. Nel 1943 sono cominciate a cadere le bombe su Milano. Una notte ci fu un bombardamento più violento del solito e, al mattino successivo, quando arrivai al lavoro, il professore non c’era. Preoccupati, siamo andati a vedere a casa sua, a Milano in via Poerio. Purtroppo il palazzo non c’era più: al suo posto un grosso cumulo di macerie. Il professore, il nostro compagno, il nostro insegnante di vita era rimasto sotto le bombe. La disperazione e le lacrime agli occhi non ci hanno impedito, a me e ai miei compagni, di salire su quel cumulo di macerie e di cantare una bellissima canzone in suo onore: “Le porte di Milano son sempre chiuse, ma quando le riapriremo rivoluzion faremo”.
Quel canto ha rappresentato per me un impegno e un giuramento a intensificare con ogni mezzo la lotta al fascismo. La data che segna il passaggio dalla distribuzione di volantini all’azione diretta e alla guerriglia è l’8 settembre 1943, il giorno dell’armistizio. Allora io ero militare a Colmino, in Friuli Venezia Giulia, e alla notizia, insieme ad altri compagni, sono tornato a Cernusco a piedi, evitando treni e stazioni presidiati dai tedeschi. Poi, per non essere costretto a indossare la divisa militare sotto i fascisti di Salò, sono andato a lavorare per la TODT vicino a Sanremo, dove, con altri compagni, ho fatto azioni di sabotaggio. Scoperti dai tedeschi, siamo fuggiti per non essere deportati in Germania. Purtroppo, durante la fuga, due compagni sono stati presi e di loro non ho saputo più nulla. Tornato a Cernusco al termine di un viaggio avventuroso, entro a far parte della 105a Brigata Garibaldi, VII distaccamento fiume Adda, che operava fino a Cassano e Vaprio. La guerra nelle città e nelle campagne era diversa da quella che si combatteva in montagna: tra i boschi e nelle valli i nostri compagni soffrivano fame e freddo, ma in combattimento avevano il nemico di fronte; noi, in città, avevamo il lavoro (necessario per mascherarci e vivere), una casa, pasti caldi, ma le azioni, fatte di pedinamenti, tranelli, imboscate, erano pericolose e richiedevano la massima attenzione e freddezza. Tante sono state le azioni a cui ho preso parte, ma voglio ricordare proprio quella di questa foto, l’unica che ho di quegli anni. In questa foto siamo io e Maria, una staffetta partigiana che poi ho sposato. Con Maria ci siamo conosciuti durante la Resistenza, suo fratello faceva parte del nostro gruppo, abbiamo fatto tante azioni insieme, dopo poco tempo aveva già coinvolto anche la sorella. Maria è così diventata staffetta partigiana, molto coraggiosa e determinata come spesso sanno esserlo le donne; insieme siamo andati tante volte a Empoli a portare il testo dell’«Unità» che poi là veniva stampata, viaggi in treno di tante ore, non come ora, ma eravamo molto motivati e pronti anche a faticosi trasferimenti.
La foto ha una strana storia: siamo in corso Buenos Aires a Milano, nel gennaio 1945. In quel periodo la situazione non era semplice: l’inverno, la fame, la fine che non arriva. Il comando di Milano allora decide di forzare la mano, fare qualcosa di grosso, che sollevi il morale. Vengono mobilitati i migliori sappisti per dei comizi volanti in alcuni cinema di Milano. Io con molti altri sono assegnato al cinema Pace, in corso Buenos Aires. Siamo entrati, eravamo una ventina, all’entrata ci mandavano dentro dai gabinetti, siamo entrati quattro alla corsia di là e quattro alla corsia di qua, sul palco un nostro oratore con altri quattro e abbiamo fatto un comizio. La prima cosa che abbiamo detto è stata: «Se c’è un fascista in sala non spari se no qui facciamo una strage!». Avevamo tutti gli sten puntati, abbiamo fatto il comizio… e gli abbiamo detto di contare fino a duecento senza muoversi. Finito tutto, dritti verso l’uscita, dove c’erano cinque ragazze con gli spolverini e le borse, pronte a nascondere le armi. Sì, perché le donne nella Resistenza a volte erano più determinate degli uomini, erano tremende. Una volta usciti ci dividiamo, io e Maria andiamo per Corso Buenos Aires. A Milano allora quando andavi nelle vie maggiori trovavi i fotografi che ti facevano la fotografia all’improvviso, poi ti davano il biglietto e se volevi andavi a ritirarla. Il fotografo ci ha fatto questa fotografia e io ho detto subito «Ritiriamola mica che dopo la mettono in vetrina e chi lo sa chi andava a vedere». Insomma il giorno dopo siamo andati a ritirarla e ci è restata. Oggi mi viene da ridere… ma allora…
Oggi, oggi, eccomi qua a Berlino: è strano emigrare dopo gli ottant’anni e per giunta in Germania. Qui c’è mio figlio e mia nuora. Mi vogliono bene, ma nel cuore mi è rimasta l’Italia.
Ricordo gli ultimi anni a Cernusco. Vivevo in un piccolo appartamento che si affacciava su un cortile. Una volta le case le costruivano così: uscivi e incontravi quelli di fronte, adesso invece le fanno in modo che ti rinchiudi e non conosci nessuno. Era venuta ad abitare una famiglia di emigranti dalla Romania. Qualcuno li guardava con diffidenza. Io ho fatto subito amicizia, erano brave persone, lavoratori. I bambini giocavano in cortile e mi facevano compagnia. Ho anche insegnato loro a parlare un po’ l’italiano.
Ho viaggiato, ho visto un po’ il mondo: non ci sono razze buone o cattive, ci sono gli uomini e basta. Il male e il bene stanno dappertutto. A Cernusco stavo bene, ma negli ultimi tempi, per l’età, gli acciacchi si facevano sentire come la solitudine. Avevo conosciuto un gruppo di ragazzi che si erano avvicinati all’ANPI, eravamo rimasti solo io e l’Aurelio della vecchia guardia, alcuni morti, altri si erano allontanati, non c’era stato ricambio. Poi questi ragazzi: curiosi, preparati, entusiasti. Adesso tocca a loro. Ogni tanto li sento per telefono. Sono bravi, non s’arrendono, tengono duro, resistono, ognuno a modo suo.

Giuseppe Comi, nato a Vimodrone nel 1924, crebbe a Cernusco. Entrato nella 105a Brigata Garibaldi, prese parte a diverse azioni partigiane a Milano e non solo. Nel luglio 1944 fu tra coloro che parteciparono alla liberazione del sindacalista Roveda dal carcere degli Scalzi a Verona. Ci ha lasciato nel dicembre 2011.

Materiale disponibile

La fotografia, un racconto partigiano [.pdf]

Giovanni Vanoli

Giovanni Vanoli nasce il 1° luglio 1905 a Brignano Gera d’Adda (Bergamo) da Angelo e Francesca, terzo di cinque figli (Giovanna, Luigia, che sarebbe diventata anch’essa una valente partigiana, Bambina, Battista). Intorno ai 10-11 anni comincia a lavorare con alcuni concittadini che lo portano con loro in val d’Ossola per apprendere il mestiere dell’edile. Negli anni dell’ascesa al potere di Mussolini, sviluppa una forte coscienza antifascista: abbracciate dapprima le idee socialiste, nel 1921, con la scissione e la nascita del PCI, non esita a iscriversi immediatamente al partito fondato da Antonio Gramsci.

vanoli

È proprio in quegli anni che, colto per strada a cantare canzoni “sovversive”, viene arrestato e tradotto nella prigione di Novara, dove, dopo due giorni di detenzione, viene liberato grazie all’intervento della sorella maggiore Giovanna, residente allora nella città piemontese. Nel 1930 si sposa con Angelina Marta, conosciuta a Treviglio come “la mora di Batai” (la mora della cascina Battaglia). In successione alla coppia nascono Carlo (1932), Bruna (1933) e Welda (1934). Dipendente presso l’impresa edile Centini, il cui proprietario è al corrente delle sue idee politiche, Giovanni lavora prevalentemente a Milano e copre quotidianamente il percorso da Brignano alla città in bicicletta, finché nel 1934 la famiglia si trasferisce a Cernusco, dapprima in via Carolina Balconi, nella curt di Pisatt, e quindi in via Uboldo angolo via Leonardo da Vinci. Prestare la propria maestranza per una piccola impresa mette Giovanni al riparo dal prendere la tessera fascista e gli consente di svolgere l’attività di muratore anche presso famiglie ebree residenti a Milano, dove entra tra l’altro in contatto con ambienti socialisti e con i compagni di via Padova.

La guerra e la Resistenza

Allo scoppio della guerra, Giovanni continua a lavorare per Centini, che gli concede una certa autonomia d’azione, ma la scarsità di cibo e i sequestri nazisti rendono difficile reperire i generi alimentari di prima necessità. Rimasto in contatto con la sua famiglia d’origine, Giovanni si reca sovente a far rifornimento di farina e patate a Brignano, ma la sua azione non sempre va a buon fine: quando viene fermato dal dazio di Cassano, viene privato dai fascisti delle scorte faticosamente trasportate in bicicletta, acuendo il senso di ingiustizia e l’insofferenza verso le prepotenze perpetrate dal regime. Nel marzo 1943, mentre una serie di scioperi, i primi dall’avvento di Mussolini, paralizzano le grandi industrie di Piemonte e Lombardia, Giovanni fa opera di volantinaggio tra Brignano, Cernusco e Milano, in costante contatto con i compagni di via Padova, che lo riforniscono del materiale da distribuire. Il 25 luglio, il giorno in cui Mussolini viene esautorato del potere dal re Vittorio Emanuele III, che affida il governo al maresciallo Badoglio, è tra coloro che entrano nel municipio di Cernusco per demolire la statua del Duce e le insegne fasciste. Nel pomeriggio viene raggiunto dai compagni di via Padova, che gli raccontano della sollevazione popolare in atto a Milano, dove i negozi dei fascisti vengono presi d’assalto e distrutti dalla gente letteralmente inferocita. Dopo l’8 settembre 1943, insieme ad Ambrogio Mattavelli e Giovanni Spinazzi, entra nel cinema comunale di Cernusco, allora occupato da militari, e requisisce otto fucili e diverse baionette, che vengono ritirate dai compagni di via Padova per evitare soffiate da parte di spie che avrebbero così facilmente potuto incastrare i partigiani. Nel frattempo la rete clandestina dei combattenti antifascisti si allarga, diventando sempre più capillare: si moltiplicano i contatti con i compagni di Sant’Agata, Carugate, Vimodrone, Brugherio. Le riunioni clandestine tra i cernuschesi si tengono una volta alla settimana nella trattoria di piazza Gavazzi angolo via Bourdillon di proprietà del fratello del Milin calzolaio, mentre in casa del Mattavelli ci si riunisce di notte per ascoltare radio Londra. Nel 1944, con la nascita della 105a Brigata Garibaldi SAP Fiume Adda, Giovanni assume l’incarico di commissario politico del VII distaccamento. Si dà da fare per raccogliere fondi e rastrellare armi, che in parte trattiene per la brigata e in parte spedisce in montagna. Numerose sono le azioni di sabotaggio portate dalla 105a soprattutto lungo la Strada Statale dove passano colonne tedesche che trasportano in Germania macchinari italiani. Nel frattempo, le presenze di Giovanni in famiglia si diradano: i figli lo vedono piombare in casa all’improvviso, ne notano la circospezione, i travestimenti, i baffi fittizi, e all’improvviso lo vedono sparire per giorni, talora per settimane. I rischi per lui e la famiglia aumentano in seguito all’occupazione tedesca e alle rappresaglie utilizzate da nazisti e fascisti per cercare di incutere timore nella popolazione e indurla alla sottomissione o alla delazione. Il 10 agosto 1944 Giovanni piange il compagno Libero Temolo, conosciuto tramite gli amici di via Padova, che è tra i 15 prelevati dal carcere di San Vittore e trucidati in piazzale Loreto dai militi della Muti. Nel marzo 1945, in seguito all’arresto da parte della Muti di un componente della 105a, Albino Oretti, vittima di una delazione, Giovanni, per non rischiare la fucilazione, è costretto a lasciare la famiglia e la propria abitazione e a nascondersi nello scantinato di un palazzo di Milano, dove rimane per circa un mese. È ormai a tutti gli effetti un clandestino, braccato dalla Muti che, per scovarlo, non esita a irrompere in piena notte in casa Vanoli, provocando grande spavento nella moglie e nei figli piccoli.

La Liberazione e il dopoguerra

Finalmente il 25 aprile 1945 porta la Liberazione dal nazifascismo e una rinnovata libertà. Il 26 aprile, il giorno dopo la Liberazione di Milano, il Vanoli fa parte della delegazione a cui il Comando tedesco consegna le armi, arrendendosi. Nei giorni seguenti proseguono gli attacchi e i rastrellamenti di colonne tedesche e fasciste, ma a Cernusco non si procede ad alcuna rappresaglia nei confronti di coloro che hanno appoggiato i fascisti. Con l’insediamento del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) in funzione di Giunta nel Comune (27 aprile), Giovanni rappresenta il PCI insieme ad Angelo Tornielli ed entra a far parte della commissione ECA (Ente Comunale di Assistenza) e della commissione di epurazione. Nel dopoguerra si divide tra famiglia, lavoro e militanza politica. Dopo aver lavorato alla Breda come colatore di ghisa agli alti forni, nel 1948-49 si mette in proprio, creando la Giovanni Vanoli costruzioni edili. Nel febbraio 1947, insieme a Luigi Cambiaghi (segretario), Mario Pastore (amministratore) e Attilio Melzi (organizzatore), è tra i fondatori dell’ANPI di Cernusco con l’incarico alla propaganda. L’ANPI per Giovanni diventa una seconda famiglia, a cui si dedica parallelamente all’impegno profuso per il Partito. Passano gli anni, ma le sue convinzioni politiche rimangono salde e precise, i suoi ideali gli stessi che lo hanno portato ad abbracciare la lotta antifascista: sete di giustizia, amore per la libertà, senso della dignità, dell’onestà, della limpidezza.

tessera del partito comunista di giovanni vanoli

In casa Vanoli non manca mai «l’Unità», che Giovanni legge al tavolo della sala, accanto alla finestra, alle spalle una stampa con i volti dei sette fratelli Cervi e numerose onorificenze partigiane. Giovanni ama discutere di politica, i suoi giudizi non sono mai neutri o diplomatici, come chi è consapevole che non si può essere nelle corde di tutti, ma quando il discorso cade sugli anni della lotta partigiana, il suo sguardo si fa cupo, serio: per i più giovani lui è un eroe, ma Giovanni rifugge le etichette e la retorica. Forse avrebbe preferito tenere quegli anni di matura gioventù per sé, per la moglie, per i figli. Anche perché il Partito si è ormai dissolto e all’orizzonte della scena politica italiana si affaccia una nuova realtà presaga di vecchi fantasmi mai morti che fa tramontare anche quelle residue speranze a cui Giovanni è rimasto aggrappato fino alla fine. Giovanni si spegne il 17 gennaio 1994.
Giovanna Perego

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Biografia [.pdf]

Pietro Tremolada

Pietro Tremolada nasce a Cernusco il 23 ottobre 1921 da Antonio e Giuseppina Beretta. Chiamato alle armi, viene dislocato a Domodossola, a guardia della frontiera.

Partigiano della prima ora subito dopo l’8 settembre, con Giovanni Vanoli, Remo Bolzoni, Giuseppe Comi e Giovanni Codazzi dà vita al primo nucleo partigiano comunista di Cernusco, che dalla primavera del 1944 verrà inquadrato nella 105a Brigata Garibaldi, della quale diventa vice comandante. Cascina Fornace, dove abitano Pietro, il comandante militare Remo Bolzoni e altri componenti della 105a, è uno dei luoghi di ritrovo dei comunisti, nonché il deposito di armi della brigata (nel giardino di Pietro, oltre a pistole e mitragliette c’è anche una mitragliatrice nascosta, puntata verso la strada) e il luogo da cui partono gli ordini per le azioni. Insieme ai compagni compie rastrellamenti d’armi e sabotaggi, contribuendo alla resa di fascisti e tedeschi.
Dopo la Liberazione, Pietro sposa Margherita Ferri, dalla quale avrà un figlio, Antonio, allontanandosi dall’attività politica per seri motivi di salute.
Pietro muore il 9 dicembre 2009.

Materiale disponibile

Biografia [.pdf]

Documenti [.pdf]

Ennio Sala

Alcuni vedono le cose come sono e chiedono “perché?”
Io sogno cose non ancora esistite e mi chiedo “perché no?”

George Bernard Shaw

Ci è caro rammentare a tutti coloro che lo conobbero nostro padre, Ennio Sala, un uomo estroso, ironico, simpatico: reputiamo altrettanto doveroso presentarlo a coloro che non lo conobbero, perché sappiano che ci si può distaccare da un passato di sofferenza solo se, nel presente, si lavora sull’immagine del futuro che si vuole costruire. Ennio Sala nasce a Milano il 23 febbraio 1925: la madre Ciceri Maria, casalinga, il padre, Giacinto, agricoltore. Dopo sette anni nasce la sorellina Pinuccia, che lui, abbreviando, chiama Pia e dopo la prigionia,

ennio sala

scherzosamente Schwestera. A 11 anni rimane orfano di padre. Come studente frequenta, in varie tappe, l’Istituto Gonzaga, il collegio Cazzulani, l’Istituto Leone XIII. E’ attratto dalle discipline classiche, legge, scrive, primeggia in italiano con temi elogiati dai professori. Adora le montagne: le Dolomiti Gardenesi diventano per lui palestra di roccia per scalate impegnative con le guide locali. Nello zaino al ritorno sempre un “sasso” carpito alla vetta. Lo scoppio della seconda guerra mondiale lo coglie adolescente in fuga dalla città ferita dai bombardamenti. Con mamma e sorella sfolla a Cernusco sul Naviglio, ospite degli zii. In paese intreccia, con successo, nuove amicizie e amplifica i suoi interessi. Si sente libero come il vento, ha sogni in tasca, progetti in testa, voglia di vivere e di agire. L’armistizio dell’8 settembre 1943 spacca in due l’Italia geograficamente e idealmente: sorgono schieramenti opposti. Estraneo ad ogni serio schieramento politico il 18 dicembre 1943 è arrestato con 5 amici da un commando della Feldpolizei. L’accusa è pesante: contatti con gruppi partigiani operanti in zona. Subisce per due mesi il carcere di San Vittore a Milano nel famigerato 6° raggio riservato ai prigionieri politici pericolosissimi: la famiglia saprà solo ai primi di marzo della sua partenza per un campo di concentramento tedesco. Grazie alle testimonianze dei sopravvissuti si può datare il giorno: 4 marzo, il luogo: stazione centrale di Milano, il mezzo: convoglio militare, il binario: il n. 21, conservato tutt’ora Ad Memoriam, la destinazione: campo di Mauthausen e successivi Ebensee e Melk. Parlare di come visse, di quanto patì rischia di fare della retorica. Il genocidio si consumò fino al maggio 1945, quando l’arrivo degli americani nei lager fa conoscere a tutto il mondo la realtà della folle persecuzione. I soccorsi sono immediati, ma è difficile e pericoloso riattivare organi che hanno dimenticato, per inattività, ogni funzione vitale. Ennio è in condizioni pietose, pesa 30 kg, ma ha deciso di continuare a vivere e da quell’istante tutto il suo essere si orienta verso questa realizzazione. La sua inossidabile fiducia nel “Valore meraviglioso della Vita” fa sì che essa entri amichevolmente nelle sue difficoltà per dargli una mano. L’alimentazione va graduata: le prime calorie sono zollette di zucchero che si sciolgono in bocca, poi pezzetti di cioccolato. Con la Croce Rossa dall’Austria viene portato a Bolzano e viene rintracciata la famiglia; su mezzi di fortuna, poiché la linea ferroviaria del Brennero è interrotta, lo raggiungono la zia Ausonia e il cugino Gian Cesare. Lo portano a Milano, in corso di Porta Nuova 8: nel rivederlo si alternano gioia e dolore. Anche lo scrittore Riccardo Bacchelli, amico e vicino di casa, persona schiva e riservata gli va incontro e lo abbraccia commosso. Ha febbre alta e tosse: lo zio medico gli prescrive esami purtroppo positivi al bacillo di Koch. Hanno così inizio le lunghe degenze prima nel sanatorio di Cuasso al Monte, poi a Sondalo dove subisce il taglio frenico al polmone più malandato. Guarisce, è in piedi, riaccende i fari, via! Lavora, si trasferisce a Cernusco e qui vive una parentesi felice come marito, padre, uomo. Si crea nuovi interessi in onda con le sue necessità, vive il suo tempo e riesce a non congelare entusiasmo e voglia di vivere. Non può salire sulle vette? Le guarda dal basso passeggiando. Ama andare a pescare con gli amici anche se può percorrere solo brevi tratti di fiume. Nel suo giardino pianta alberi, rose, c’è spazio anche per un piccolo orto e un pollaio, si prende un cane e si rifugia totalmente negli affetti familiari. Dalle remote cicatrici sorgono problemi respiratori, inevitabili i frequenti ricoveri nell’ospedale di Cernusco e poi di Melzo: vive ora in simbiosi con la bombola dell’ossigeno che, se lo limita nell’operare, lo lascia libero nel pensare.
Muore il 15 marzo 1993.
Ciao papà, riposa in pace. I tuoi figli Renata e Tiziano

Un grazie all’aiuto e alla preziosa testimonianza della zia Pinuccia, amatissima sorella di nostro padre.
Tiziano Sala

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Biografia [.pdf]
Video: Intervista a Tiziano Sala, figlio di Ennio

Luigi Rolla

Luigi Rolla, classe 1926, milita nella GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) su ordine specifico del comandante del VII distaccamento della 105a Brigata Garibaldi, al fine di carpire informazioni preziose per la lotta partigiana. Il 23 marzo 1945 il Rolla lascia la GNR per unirsi ai compagni, partecipando attivamente alle fasi finali della guerra di Liberazione e all’insurrezione.

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Cesare Riboldi

 

cesare riboldi

Cesare Riboldi e Luigi Mattavelli: sognando la libertà

Cesare Riboldi è mio zio, il fratello di mio papà.
Il cippo a metà del viale Assunta si trova proprio nel luogo dove Cesare ha trovato la morte, il 24 aprile del 1945, non ancora ventunenne, insieme con il suo amico Luigi Mattavelli. Esattamente 10 anni prima che io nascessi. Quindi io e lui non ci siamo mai conosciuti.
Cesare nasce alla cascina Malachina, Cassina de’ Pecchi il 25 giugno 1924. Ha un fratello più piccolo, Giuseppe, detto Peppino (che diventerà il mio papà!). La mamma, Agnese Nava, è cernuschese.
Si vive in cascina, una vita semplice, da contadini. Cesare rimane orfano di padre nel 1933. Agnese decide allora di tornare con i due figli a Cernusco, dove ha fratelli e sorelle e si stabilisce in via Monza. È dura vivere in quegli anni trenta così difficili, soprattutto se sei una donna sola con due figli. Ma Agnese è forte e i suoi figli sono bravi ragazzi, iniziano a lavorare subito dopo la quinta elementare, fanno un po’ di tutto e si tira avanti. Cesare ha 16 anni quando inizia la guerra. Cresce vedendo nel suo paese personaggi con camicie nere, violenti e prepotenti. Sente di persone che sono state licenziate perché si sono rifiutate di iscriversi al partito fascista. Lo zio, lavoratore della Marelli, gli parla di scioperi finiti a manganellate, con arresti e licenziamenti.  Sa che un amico, in via Bourdillon, curt del Carlutin, che si è azzardato a cantare l’inizio di Bandiera rossa, è stato picchiato e costretto a bere olio di ricino. Si è abituato alle sirene che avvertono dell’imminente bombardamento, alla vista degli sfollati che hanno perso tutto.
Nel giugno del 1943, Cesare, appena compiuti i 19 anni, viene chiamato alle armi e parte per Ravenna. Ma quell’estate succedono tante cose in Italia. Mussolini viene arrestato, sostituito da Badoglio che l’8 settembre firma l’armistizio con gli alleati, «EVVIVA, la guerra è finita!» Tutti festeggiano, anche nei cortili e nelle piazze di Cernusco, ma… non è così! Quasi subito arrivano le armate tedesche che occupano il Nord Italia, nasce la Repubblica Sociale e i fascisti, i “repubblichini” si ringalluzziscono.
Cesare torna a casa. Ma durante i mesi nell’esercito ha ascoltato tante persone, ha capito che si può fare qualcosa contro l’arroganza del potere, che quella guerra lui non l’ha voluta, e ha un’idea in testa: mettersi in contatto con quelle persone che da un po’ di tempo se ne stanno nascoste in montagna o in pianura nascosti nelle cascine della campagna cernuschese. Persone che non vogliono la guerra, non vogliono i fascisti, non vogliono i tedeschi!!!
E così Cesare entra a fare parte della Resistenza. Lui non sa cosa sia vivere in democrazia, perché quando è nato, nel 1924, già l’Italia era stata fascistizzata. Proprio nel mese della sua nascita, il giugno del 1924, Matteotti viene assassinato dai fascisti, perché in Parlamento ha avuto il coraggio di denunciare i pestaggi e i brogli durante le elezioni manipolate da Mussolini e soci.
Cesare ha solo un’idea di democrazia, ma è un sogno bellissimo, importante e necessario e lui non ha paura di fare cose molto pericolose per perseguire questo sogno. Cesare e Luigi Mattavelli fanno parte dell’11a Brigata Matteotti. Sono i più giovani, ma anche i loro capi “Dino” (Erasmo Tosi) e “Ivo” (Vittorio Galeone) hanno pochi anni più di loro. Portano ordini alle varie unità dislocate in zona: Bussero, Carugate, Pessano, Pioltello. Partecipano a diverse azioni partigiane con il loro gruppo. Sabotaggi, volantinaggi, approvvigionamenti di armi, appostamenti notturni per spiare le mosse dei tedeschi.
Ivo è coraggioso, a volte temerario e spericolato. Cesare, anzi Cesarino come lo chiama lui, lo accompagna spesso nelle sue imprese. Cesare dorme spesso in cascina, a casa potrebbero venire a cercarlo e lui non vuole mettere in pericolo i suoi cari. Ma la mamma, Agnese, ospita in casa sua per lungo tempo proprio Ivo, che è ferito e ricercato («La signora Agnese Nava madre di Cesarino diventò per me una seconda mamma» ricorderà lo stesso Ivo) Lo fa rischiando anche la sua vita, rischiando di perdere tutto. I tedeschi sono famosi per le loro rappresaglie.
Ed eccoci al 24 aprile. Gli Alleati si stanno avvicinando a Milano e finalmente arriva ai capi delle brigate partigiane l’ordine di prepararsi, di procurarsi il maggior numero di uomini e armi possibile, perché il giorno dopo è prevista l’entrata in città. Ivo ordina a Cesare e a Luigi di fare il giro di tutti i distaccamenti della zona avvisando di tenersi pronti.
Siamo al tramonto del 24 aprile, sono passate da poco le 18, Cesare e Luigi stanno percorrendo il viale Assunta e sono stanchi, perché già sono stati a Carugate e Pessano. Stanno tornando alla cascina Arzona di Pioltello, dove incontreranno ancora Ivo e gli altri. Sono emozionati e felici. Felici come si può esserlo a 20 anni con tutta una vita davanti, una vita che da lì a poche ore sarà all’insegna di una libertà che non hanno mai conosciuto, ma per cui hanno lottato con tutte le forze e con tutto il cuore.
Ma ecco… appare lui, il maresciallo delle Brigate Nere, un fascista conosciuto in paese. Questa persona, al contrario di Luigi e Cesare, è piena di rabbia, di paura, sente arrivare la fine, sa che succederà presto qualcosa…
Cesare e Luigi si guardano. Il maresciallo è armato, ma loro sono in due. Gli si avvicinano, lo disarmano per renderlo inoffensivo… una delle consegne ricevute è proprio quella di procurarsi armi in tutti i modi possibili. Cesare e Luigi non hanno pensieri di morte, vogliono solo portargli via le armi. Poi proseguono il loro cammino, lasciandolo andare.
Ma lui, il maresciallo, lui sì vuole la morte, ha un’arma nascosta, che Luigi e Cesare, un po’ ingenuamente non hanno trovato, si gira e spara alcuni colpi. Spara per uccidere e infatti Cesare muore subito, colpito in più parti del corpo. Luigi sopravvive, si trascina alla cascina Lenzuoletta, è ferito gravemente al torace. Muore dopo due giorni in ospedale. Troppo gravi le ferite riportate!
E così, mentre i cernuschesi il 26 aprile festeggiano la liberazione e la resa dei tedeschi anche nel nostro paese, la famiglia di Cesare, quella che sarà la mia famiglia, piange al suo funerale.
Tante volte ho ripensato a lui, steso per terra in quel punto del viale Assunta. È un’immagine dolorosa e allora, per allontanarla, penso ancora alla gioia di quelle sue ultime ore intense. All’emozione meravigliosa che hanno provato Cesare e Luigi quel lontano 24 aprile, all’attesa di un mondo migliore, al sogno che si stava avverando e che non hanno potuto vedere.
Cesare e Luigi, con il loro sacrificio, ci insegnano che vale sempre la pena di lottare per qualcosa di importante in cui si crede. Quel giorno non hanno voluto la morte, non c’era odio dentro di loro, solo speranza.
Sono sicura che se fossero qui adesso con noi, vorrebbero la pace, la libertà, il rispetto di ogni persona, e lotterebbero contro tutti i muri e le ingiustizie che persistono anche oggi, nonostante questa grande lezione della Storia che è stata la Resistenza.
Marina Riboldi

Materiale disponibile

Biografia [.pdf]

Angelo Ratti

Angelo Ratti nasce a Cernusco sul Naviglio il 2 maggio del 1926. Per la sua scelta antifascista viene arrestato con cinque compagni e, nel marzo del 1944, deportato nel campo di sterminio di Mauthausen-Gusen. Lavora dapprima alla costruzione del campo di Gusen II e poi in galleria. Nel maggio del 1945, Angelo, finalmente libero, torna in Italia, lavora presso una grande industria editoriale a Milano, dove vive con la famiglia. Diventa un testimone e guida numerosi viaggi a Mauthausen-Gusen.

Due mondi

Il padre di Angelo, socialista ed antifascista, aveva subito la persecuzione dei fascisti già a partire dal 1923-24. Angelo cresce secondo la dottrina del papà, ma la scuola che frequenta e tutta la società sono pervase dal totalitarismo ideologico fascista e i ragazzi devono militare nell’Opera Nazionale Balilla. Il giovane Angelo vive questa contraddizione tra il pensiero respirato in casa e quello imposto fuori.

La scelta

Arriva comunque il momento della presa di coscienza e già nel 1943 Angelo fa la sua scelta: con un gruppo di ragazzi, sei studenti di Cernusco, inizia a svolgere attività antifascista.

Tradimento e arresto

Il 18 dicembre del 1943, arrivano da Milano alcuni militari tedeschi che, casa per casa, arrestano tutti i componenti del gruppo: Roberto Camerani, Ennio Sala, Quinto Calloni, Virginio Oriani e Pierino Colombo. Angelo viene trasportato, con i suoi compagni, al carcere di San Vittore, a Milano. Dopo gli scioperi dei lavoratori contro la guerra e l’occupazione tedesca, il carcere si riempie di operai ed antifascisti: è ora di fare un po’ di spazio, così Il 4 marzo del 1944, di notte, con cento prigionieri, viene chiuso in un vagone merci e fatto partire per la deportazione. Arriveranno alla stazione di Mauthausen.

Da Mauthausen a Gusen

Il 14 maggio del 1944 Angelo viene inviato, con altri 2000 deportati, ad uno dei più grandi sottocampi di Mauthausen, Gusen, che raggiunge dopo una marcia di circa otto chilometri, con i piedi ormai piagati dagli zoccoli di legno rotti e spaiati. Angelo è fortunato perché riesce ad entrare in un Kommando che prepara le punte da usare per le perforazioni, un lavoro che consente di resistere qualche mese, qualche giorno in più. Poi le cose cambiano, altri lavori, più fatica.

Libero

Appena arrivano gli americani, l’8 maggio del 1945, Angelo è impaziente, non sopporta più il campo, il suo odore, stracci come vestiti e la scabbia. Con alcuni compagni lascia il campo e trova dei militari italiani rilasciati dai campi di prigionia. Viene aiutato a riprendersi e scopre che tra i soldati italiani c’è suo fratello. Si ritrovano, si riabbracciano e poi finalmente inizia il viaggio di ritorno a casa.
La vita riprende.

Associazione Roberto Camerani

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Giuseppina Pirola

Giuseppina Pirola, sorella di Mario, nasce a Cernusco il 29 settembre 1925. Nel periodo della Resistenza, è staffetta della 26a Brigata del Popolo, con il compito di portare volantini e stampa clandestina da Milano a Cernusco. In un primo tempo Giuseppina viene inviata anche in provincia, in particolare a Vimercate, ma, in seguito al fallito attacco dei partigiani vimercatesi al campo di aviazione di Arcore (a cui segue una durissima repressione che porta all’arresto e alla fucilazione di diversi partigiani), viene sostituita da Regina (“Gina”) Frigerio, sorella di Felice. Infatti gli spostamenti di Gina verso Vimercate sono meno sospetti perché Felice Sirtori, responsabile della 13a Brigata del Popolo di Vimercate e successivamente eletto sindaco in quella cittadina nell’immediato dopoguerra, era cugino dei Frigerio di Cernusco, e anche una frequentazione così continua e costante era facilmente giustificabile da motivi di parentela.

Riportiamo un’interessante testimonianza di Giuseppina contenuta nel libro di Giorgio Perego Col cuore in gola:
«Di quegli anni ricordo, oltre alla uccisione di Riboldi e Mattavelli, quando hanno arrestato il Camerani, il Colombo, l’Oriani e gli altri giovani. Nello stesso periodo o poco dopo è stato arrestato anche Mario Valzasina: non si sa cosa abbia fatto, ma l’hanno mandato in Germania ed è tornato gravemente malato.
Ricordo anche l’aiuto che la mia famiglia ha dato a una coppia ebrea fuggita da Milano: l’ingegner Carboni, della Lagomarsino, e la sua compagna. Noi abitavamo nella corte del Penati, in Piazza Padre Giuliani e li abbiamo ospitati dall’ottobre ’44 al gennaio ’45; poi, per loro maggior sicurezza, sono stati ospitati dalla famiglia Guzzi, che aveva l’alloggio in una parte della proprietà Penati confinante con l’aperta campagna.
Sulla resa del Comando tedesco ricordo che la sera del 25 aprile, andando alla Cooperativa a prendere il latte, mi preoccupai molto delle mitragliatrici che i tedeschi avevano puntato sulla piazza dalle finestre di Palazzo Tizzoni: mi preoccupai per i partigiani e per la popolazione tutta. Il giorno dopo, le trattative per la resa proseguirono fino al tardo pomeriggio, mentre la piazza, di ora in ora, si riempiva di gente. Quando, alle ore 16, si è aperto il portone di Palazzo Tizzoni e il prevosto, uscendo, disse: “È finita, è finita” tirammo tutti un gran sospiro di sollievo.
Qualche giorno dopo arrivarono in paese gli Americani; avevano la sede del Comando presso Villa Penati. Furono giorni di euforia: in Piazza Padre Giuliani c’era musica tutto il giorno e si ballava per ore e ore».
Franco Salamini

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Bruno Perego

Bruno Perego nasce a Cernusco sul Naviglio il 7 febbraio 1925.
Nel 1943, dopo essere stato assunto, in qualità di operaio meccanico, presso le Ferrovie dello Stato, per evitare di essere arruolato nell’esercito repubblichino sceglieva il servizio al lavoro presso la Todt (organizzazione preposta all’esecuzione di lavori nelle opere militari e civili dei Reich). Tramite la ditta Piazzoli di Cernusco partì con alcuni altri giovani cernuschesi per San Remo, dove era in corso la costruzione di una muraglia antisbarco. Dopo alcuni mesi di lavoro, alla notizia di un probabile trasferimento in Germania, anche Bruno Perego abbandonava il posto di lavoro e ritornava a Cernusco, vivendo alla macchia. In seguito alla minaccia dell’arresto dei genitori (bando Graziani), Bruno Perego si presentava alla Caserma Bersaglieri di Corso Italia, da dove veniva poi inviato alla Caserma di Artiglieria di Novara. Da lì, nell’aprile del 1944, nuova fuga verso casa, assieme a due concittadini: Giuseppe Perego e un certo Scirea. Dopo aver guadato il Ticino, giunti ad Arluno furono accolti da don Siro, che ben conoscevano perché anni prima era stato assistente all’oratorio di Cernusco. Seguendo il canale Villoresi, i fuggiaschi, dopo tre giorni (di notte camminavano, di giorno dormivano sui fienili dei cascinali) giunsero a casa. Bruno Perego, rimanendo sempre ben nascosto in fienili e cisterne, venne in seguito contattato dal socialista Stefano Sirtori, detto “Nino”, entrando così a far parte dell’11a Brigata Matteotti, presso la quale svolse attività di propaganda antifascista, recupero armi, raccolta fondi per i partigiani.

Bruno Perego partecipò alla fase insurrezionale nelle operazioni di disarmo del nemico, di presidio di punti strategici, di mantenimento dell’ordine pubblico.
Giorgio Perego

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