Non ho mai conosciuto direttamente mio nonno Gianni, avevo 6 mesi quando è morto, improvvisamente, nel 1981. Ho solo qualche foto di quando era a militare, guardia di frontiera nel Norditalia, poi in Albania o immagini di quando festeggiava coi muratori suoi colleghi la conclusione di un tetto di una nuova casa. È stato attraverso i racconti di mio zio, Giuseppe Comi, partigiano con lui nella 105a Brigata Garibaldi SAP, che ho scoperto come, a costo di mettere a disposizione ogni giorno la propria vita, mio nonno abbia lottato per difendere gli ideali di libertà e giustizia che ancora oggi sono così fondamentali.
Anni Trenta, tempi diversi. Giovanni, nato a Pieve Fissiraga (Lodi) nel 1920, con la sua famiglia di contadini si era trasferito a Pioltello alla cascina Bareggiate, dove la vita dei campi lasciava poco tempo per lo studio e la cultura ma dove i valori veri si concretizzavano e prendevano forma ogni giorno nella fatica di vivere, nelle ingiustizie e nelle prevaricazioni subite, nelle violenze all’olio di ricino, nella mancanza di libertà di pensiero ed espressione. Un ragazzo normale di vent’anni, come tanti, lavoro duro tutta la settimana, e la domenica poche ore in balera. Poi arriva la guerra. Mio nonno lascia la cascina Bareggiate a Pioltello, viene arruolato come guardia di frontiera al confine nord-est italiano per essere poi trasferito in Albania.
A sinistra: Giovanni Codazzi (primo a sinistra) con due compagni in Albania (1942)
A destra: Giovanni Codazzi in Albania (1943)
Solo qualche riga alla mamma Elisa per dire che “tutto va bene”, per non preoccuparla, per sapere come stanno i fratelli più giovani, Giuseppe, Romano e Maria, e il papà Luigi. Nel 1943 arriva finalmente una licenza, tanto desiderata dopo anni di assenza da casa, la prima che sarà anche l’ultima, non farà più ritorno in Albania: c’è stato l’8 settembre, è stato firmato l’armistizio, la guerra è finita! O forse no. Bisogna nascondersi, i tedeschi stanno rastrellando tutta la zona. Sono in tanti come lui, molti anche più giovani, ragazzini quasi, con il desiderio di fare qualcosa per uscire da questo incubo, da questa oppressione che si fa ogni giorno più forte. Ed è con un amico, Pino, Giuseppe Comi, che ai tempi frequentava la sorella Maria, staffetta partigiana poi sua moglie, che ha inizio la militanza clandestina. Di giorno sempre all’erta, nascosto in cascina, lavorando nei campi, nel terrore di essere visto o denunciato da qualche delatore, e la sera all’opera all’interno dei comitati clandestini, col nome di battaglia di “Romano”. Il perché di quel nome, uguale a quello reale di suo fratello, non l’ho mai saputo. La mamma a casa, che non chiudeva occhio fino al mattino quando lo sentiva rientrare in bicicletta, ormai all’alba (“anche questa volta è tornato, ma fino a quando?”), preparava la colazione con quel poco che c’era e senza chiedere nulla di quello che era successo nella notte: “un sabotaggio, un attacco ai treni, scritte sui muri contro l’oppressore” cose non dette ma tradite dai vestiti strappati, sporchi, dal colore della vernice rimasta sulla manica della camicia…
“Con il cuore in gola” non è solo il titolo di un libro sui partigiani cernuschesi, ma è lo stato d’animo durato mesi, anni, fino al 25 aprile del 1945. Gli archivi della 105a sono andati distrutti, è difficile tracciare un quadro preciso delle azioni, ma i risultati sono ancora sotto gli occhi di tutti.
Il dopoguerra, la ricostruzione, finalmente, dopo tanto sperare, si può realizzare un mondo più giusto, più equo, più solidale… Si può ricominciare, si può. Gianni conosce Cherubina Lamperti, tre mesi dopo, nell’agosto del 1946, si sposa, si trasferisce a Carugate, cascina Graziosa.
A sinistra: Giovanni Codazzi (a sinistra) durante il Carnevale del 1947 alla cascina Graziosa
A destra: Giovanni Codazzi (il secondo in basso da destra) insieme a colleghi muratori (1953)
Ogni giorno si reca a Milano in bicicletta, per ricostruire le case, dalle macerie nasce nuova vita, e poi al rientro e nei momenti liberi al lavoro nei campi o ad accudire gli animali. Durissimo, per tutti. Ciò che si è vissuto intensamente, la paura, la gioia, la sete di giustizia sostengono la speranza in un modo diverso, migliore; sono sempre presenti, in ogni azione quotidiana, nei rapporti con gli altri, si fanno spazio nell’educazione dei figli Luciano e Marino, nelle associazioni sociali delle ACLI, nella perseveranza delle donazioni di sangue così preziose per l’AVIS.
Giovanni riceve il premio AVIS dal dott. Orlandi a Carugate (1970)
Non ho mai conosciuto direttamente mio nonno Gianni, ma lo ritrovo spesso in quello in cui anch’io credo, lo ritrovo quando chiedo giustizia, il rispetto dei diritti umani, quando cerco di rendere possibile una vita migliore ai bambini delle baraccopoli di Santo Domingo, quando credo che esista un modo più giusto di utilizzare le risorse del pianeta… sono passati oltre 60 anni da allora, la Resistenza ha preso altre forme, i principi ispiratori sono gli stessi.
Roberto Codazzi
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