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battaglia
Celso Battaglia

Celso Battaglia è nato a Vinca, località delle Alpi Apuane, il 1° Agosto del 1933 e ha vissuto nel paese d’origine fino al 1958. Sino a quella data ha lavorato come cavatore nel bacino marmifero del Sagro, a fianco del padre Renato, del fratello Attila, e del suocero Federico, che vengono frequentemente rammentati nei suoi racconti e nelle sue memorie. Sposato dal 1956 con Lauretta Federici – anche lei vinchese – ha tre figli, tutti nati in Francia dove Celso è emigrato nel 1958 vivendo e lavorando da operaio presso una grande industria vetraria nel centro-est di quel paese. La lontananza non ha mai intaccato – anzi ha amplificato – il suo legame di traboccante amore per Vinca, con cui ha mantenuto un collegamento insostituibile e vitale. Sia Celso Battaglia che sua moglie sono superstiti dell’orribile strage che il 24 agosto 1944, per quattro giorni e quattro notti, annientò la popolazione del paesino delle Apuane e durante la quale entrambi ebbero i nuclei familiari di appartenenza decimati dalla furia e dalla barbarie delle milizie nazifasciste. Celso, allora, aveva undici anni e quella terribile esperienza, raccontata nel suo libro Vinca – la sua storia e il suo martirio, lo segnerà profondamente per tutta la vita.

Vinca: monumento in ricordo dell’eccidio

Celso Battaglia nel 1979 è rientrato in Italia, stabilendosi in provincia di Pisa dove, dando un naturale sbocco al suo carattere teso al prodigarsi per la comunità sociale, ricopre numerosi incarichi nell’associazionismo e nella cooperazione. Nei suoi sogni e desideri è sempre stato presente l’incontenibile bisogno di tramandare un forte sentimento di amore e di riconoscenza verso la sua terra unito alla ferma volontà di non dimenticare mai e di raccontare sempre, e a più persone possibili, ciò che i suoi occhi di ragazzino avevano visto in quell’agosto del 1944. Questi sogni si sono ulteriormente concretizzati, oltre che con un’instancabile opera di testimonianza e di memoria presso i giovani delle scuole di mezza Italia (comprese quelle di Cernusco sul Naviglio), con la scrittura di un secondo libro di poesie di riflessioni intitolato Col cuore e con la mente, a cui Celso ha dedicato energie, tempo, ricerche e sacrifici sostenuti da convincimenti profondi sui valori della memoria, della fratellanza e della libertà.

Materiale disponibile

Biografia [.pdf]

L’eccidio di Vinca [.pdf]

Angelo Stocchetti

Mio padre, Stocchetti Angelo, nasce a Camisano in provincia di Cremona da una famiglia di contadini, il primo di cinque figli. Fin da bambino si vede la sua voglia di imparare a studiare, ma le esigenze economiche della famiglia fanno sì che a 10 anni inizi a lavorare nei campi e nella stalla dopo aver terminato la scuola al mattino. Riesce a frequentare fino alla V elementare. Poi inizia la carriera dura di “Mungitore”, quella che ora svolgono gli indiani nelle stalle del cremonese. Già nella gioventù si manifesta la sua tendenza politica: per non dare noia e per non far avere rappresaglie alla famiglia, la porta avanti clandestinamente, senza mai farsi prendere dalle camice nere.

angelo stocchetti da bambino

Il 7 marzo del 1941 viene chiamato alla visita di leva, in quel tempo gli balena l’idea di disertare, ma sempre per rispetto… Il 25 gennaio del 1942, non ancora ventenne, viene chiamato alle armi presso l’VIII fanteria, nella caserma di via Vincenzo Monti a Milano. L’1 luglio parte per la Russia con il II Reggimento di Marcia 54° battaglione facente parte dell’ARMIR. Partono dopo aver partecipato alla benedizione delle armi in piazza Duomo da parte del Cardinale Schuster, con la famosissima frase pronunciata dall’allora celeberrimo cardinale di Milano: “Cosa volete… c’è la guerra… se sarete fortunati tornerete alle vostre case…”. Il 21 settembre 1942 arriva a destinazione, il 3 novembre 1942 viene trasferito alla divisione Sforzesca, si trova sul fronte russo, medio del Don, per l’operazione 199 del 18 novembre 1942, con abiti estivi e armamenti inadeguati per il fronte di fuoco dei russi, cosicché il 24 dicembre 1942, dopo una furiosa battaglia, la notte di Natale, in mezzo a metri di neve e fuoco, viene fatto prigioniero dai russi.

angelo stocchetti

Non parlava mai di questa tragedia vissuta, l’unica cosa che siamo riusciti a sentire dalle sue labbra è che i soldati morivano in piedi, congelati, e che era una distesa bianca di neve e rossa di sangue. Da qui viene trasferito nel campo di prigionia 105 di Tombon in Siberia, questo per lui paradossalmente è la salvezza. Poi succede un fatto che fa sì che non lavori in questi campi: all’appello dei russi, venne chiesto chi dei prigionieri fosse studente, lui alzò la mano e da lì iniziò la sua prigionia, studiando il russo e imparandolo a scrivere. Un aneddoto voglio raccontare prima di andare avanti con la storia: negli anni ’60 quando l’Italia era ancora divisa in schieramenti politici, a Milano inizia la fiera campionaria, e l’Unione Sovietica era vista come quella che mangiava i bambini, lui faceva da interprete agli amici e alle persone che si affacciavano agli stand con titubanza per aver paura di incontrare l’impero del male. La sua prigionia dura fino al 14 novembre 1945. Da qui ci vogliono 60 giorni di treno per tornare in Italia. Il 14 gennaio 1946 viene ricoverato all’Ospedale militare di Varese per gli accertamenti. Il 20 febbraio 1946 viene messo in licenza di convalescenza di 30 giorni con esiti di “congelamento” al ginocchio destro e ai piedi. Il 22 marzo 1946 entra ancora nell’Ospedale militare di Milano per ulteriori accertamenti, ma visto gli esiti uguali all’Ospedale militare di Varese viene messo in licenza di convalescenza per ulteriori 90 giorni. Il 25 agosto 1946 viene collocato in congedo illimitato. Da quel momento riprende la sua vita “dura” di contadino. Nel 1947 viene proposto per la croce di guerra dopo minuziosi accertamenti; alla fine dell’anno perviene dal comando dell’arma la negazione, per il mancato raggiungimento dei giorni utili sul fronte di guerra: ne ha fatti 92 contro i 120 richiesti… considerati proprio come carne da macello. Spesso diceva: “La croce è meglio che se la sono tenuta… io intanto nel campo di prigionia ho salvato la pelle”. Nel 1948 arriva una bella notizia, gli viene concessa la pensione di guerra; questo momento dura solo fino al 1951, fino a quando arriva un telegramma dal comando generale dell’esercito che comunica la sospensione senza nessun motivo. Quando vi è gente che la guerra l’ha vista da lontano…, questa era l’Italia di allora, come in fondo quella di oggi, e i privilegi beneficiano chi non si schiera mai ed è sempre attendista. Nel 1950 si unisce in matrimonio con mia madre, tre anni dopo nasce mio fratello Gianfranco. Nel 1954 decide di trasferirsi a Gessate per migliorare le sua vita e inizia a lavorare in fabbrica. Diventerà un tecnico specializzato nella saldatura ad ultrasuoni, cambiando completamente vita, da “contadino” sotto la mezzadria ad “operaio specializzato”. Conduce una vita tranquilla di lavoro e famiglia.

angelo stocchetti

I suoi hobby erano: funghi, lumache, rane, tornare sempre al paese nelle sue fontane sorgive a pescare i lucci, ma soprattutto il “Partito Comunista Italiano”, a cui era tesserato fin da giovane. Nel 1958 nasco io.

Mi ha dato l’opportunità di formarmi culturalmente e professionalmente, come del resto fanno tutti i padri. Nel 1979 finisce la sua attività lavorativa, ma non sta mai fermo, in quanto aveva una passione innata per la natura: quando veniva chiamato a mungere le mucche lui correva, aiutarle a partorire lo sapeva fare meglio di un veterinario, e poi la cosa che nessuno sapeva svolgere era tagliare le unghie alle mucche, “il famei… come si dice qui”, oltre ad una passione sfrenata per l’orto. Il 28 aprile 1989, a 66 anni un improvviso malore lo toglie dalla vita terrena. Vorrei ricordarlo come uomo distinto e umoristico, aveva un senso dell’humor incredibile e professionale… queste sono le parole che mi vengono da dentro per ricordarlo. Spero che questo piccolo contributo possa servire a far sì che non si paragoni mai chi ha combattuto per la libertà a chi ha “SBAGLIATO” come dice qualcuno, perché se questo sbaglio si avverava la dittatura era la nostra casa, cosa dovrei dire io che a mio padre la pensione l’hanno tolta senza nessun motivo? Allora è giusto darla a questa gente? Anche mio padre ha dato il suo contributo all’ITALIA come i partigiani, ma con altre sofferenze: sbattuto in una terra dove avrebbe preferito non andarci per quelle circostanze, ma che poi ha sempre amato immensamente. So che può sembrare un’utopia, ma ci spero sempre che i giovani, e i meno giovani, si sveglino dal torpore nel quale i nostri governanti li hanno indottrinati, e sappiano fare tesoro di queste persone portatrici di libertà, giustizia e pace, valori fondanti che hanno permesso che si possa realizzare la nostra carta costituzionale.

Tre aneddoti

Per concludere vorrei ricordare ancora degli aneddoti un po’ umoristici e un po’ che danno l’idea della rabbia che covava dentro dal rientro dalla Russia. Mia nonna, una donna dell’Ottocento, avendo avuto la notizia della scomparsa del figlio da Radio Mosca, che pur di averlo a casa avrebbe fatto di tutto, si reca da una di queste presunte guaritrici e le spiega la situazione chiedendo se “vede” suo figlio, la presunta maga dice che lo “vede” ma che mangiano i bambini a pranzo e a cena. Una volta tornato, mio padre viene a conoscenza da mia nonna di questo fatto, si reca personalmente da quella che aveva il cosiddetto “segno”, lei vedendolo ne rimane entusiasta, parlando del più e del meno ad un certo punto lei gli chiede che cosa mangiavano in Russia, mio padre in risposta: “Mangiavamo un bambino in due”. Tornato dalla Russia sapeva chi erano stati i capi fascisti del suo paese, la rabbia covata per i patimenti subiti per colpa di questa gente era arrivata all’esasperazione. Uno di questi capi era una donna: l’hanno presa, rasati i capelli a zero e pitturato il capo di nero. Dopo hanno preso un cavallo, allora i poveri contadini non avevano il trattore, hanno appeso le redini al collo e l’hanno trascinata per un po’ di tempo, una volta fermato il cavallo hanno scritto sul cartello qui c….o e p….o metà al duce e metà al fascio. Un’altra volta hanno preso i cinque capi fascisti del paese, li hanno portati alla Casa del Popolo e facendoli salire sul tavolo in mezzo alla sala li hanno fatti cantare bandiera rossa.

Erminio Stocchetti

Materiale disponibile

Biografia [.pdf]

Angelo Galimberti

Angelo Galimberti è nato a Cernusco sul Naviglio, alla Cascina Fontanile, il 20 gennaio 1910. Ha partecipato alla seconda guerra mondiale dal 1940 al 1945. Era soldato semplice. È stato sul fronte in Albania, poi in Grecia, dove è stato fatto prigioniero e successivamente deportato in Germania dai nazisti, in seguito al rifiuto di passare dalla loro parte dopo l’8 settembre 1943.

Il racconto che segue è stato fatto dallo stesso protagonista al nipote Emanuele Oriani il 23 febbraio 1996. Registrato su audiocassetta, è stato trascritto in occasione del suo 90° compleanno.
Angelo Galimberti è morto a Cernusco, alla cascina Fontanile, il 21 giugno 2006.

Il racconto

«Scoppiata la guerra, mi hanno richiamato nell’VIII fanteria il 6 dicembre 1940. Avevo trent’anni e ho dovuto andare. Sono tornato a casa il 27 giugno 1945.

Il fronte in Albania

Mi hanno mandato subito al fronte in Albania. Durante una mezza giornata libera, siamo andati a visitare il cimitero di Valona, il cimitero degli italiani. C’erano anche i fascisti. Sono andato a visitare la tomba di tre-quattro italiani: c’era anche Battista Mandelli di Ronco. Era un fascista. Era in un posto sicuro: in cucina. Invece una bomba l’ha ammazzato mentre era là. Toh, eccolo lì, una croce e basta. Alla sera tardi ci hanno portato su in linea. Non si vedeva niente. Era tutta terra. Eravamo in fila indiana, eravamo lì per rinforzare i nostri soldati già presenti. Quelli che erano lì ci dicevano: “Eh, tra tre-quattro giorni vi mettono a posto anche voi!“.Invece di darci un po’ di coraggio, ‘sti animali!Che paura! Fortuna che erano gli ultimi giorni. Se non c’erano i tedeschi, gli inglesi ci ammazzavano tutti. Eravamo al fiume Berat che divideva l’Albania dalla Grecia. Mi ricordo che c’erano i tedeschi che pranzavano. Prima hanno finito loro, poi hanno fatto passare noi. Noi abbiamo cominciato a raccogliere le briciole che avevano lasciato loro. Noi italiani eravamo morti di fame, non c’era più niente da mangiare. Nessuno più portava rinforzi e cibo. Noi italiani eravamo rimasti isolati. Ai tedeschi invece non mancava niente.

La Grecia

Sono stato tre anni in Grecia, nel Peloponneso: ero a Ekiparissìa, a 80 km da Messene. Era una bella città. Lì c’era tutto il battaglione. C’erano tanta verdura e frutta, uva… Ma, povera gente, gli mancava il pane. Noi italiani di pane ne avevamo tanto. Per me due pagnotte al giorno erano perfino troppe: una era in più. I greci erano brava gente anche loro. In guerra c’erano i partigiani e quelli che ti guardavano male. A me mi volevano bene tutti. Io facevo l’ortolano. Ne ho data tanta di roba ai greci. Volevano che mi sposassi là. Le donne mi dicevano: “Tu sposare a Ekiparissìa!“. Ah, no, io volevo tornare in Italia, anche se c’erano belle ragazze. Noi coltivavamo peperoni, spinaci, pomodori, scarola, insalate varie, aglio, cipolle. Facevamo arrivare sementi e piantine da Milano. Ta sé matt, che bell’ortaglia avevamo. C’era verdura dappertutto, non ne ho mai vista tanta! Grazie a noi anche i greci stavano bene. Però giovani non ce n’erano più. Chi era andato coi partigiani, chi con gli inglesi. C’erano solo vecchi e donne. Al sabato e alla domenica stavamo in caserma. Qualche volta abbiamo provato ad andare all’osteria, ma c’era da stare attenti. Potevano fare qualche attentato, così stavamo ritirati.
Poi, quando hanno fatto dimettere Mussolini, il 25 luglio 1943, i tedeschi non avevano più fiducia nel governo italiano. Dicevano: “Mussolini kaputt!“. Hanno cominciato ad arrivare e hanno preso in mano loro il comando. Le cose non andavano troppo bene. Infatti prima dell’8 settembre hanno cominciato a fare andare le armi.

Cattura e deportazione

Un giorno, erano le sei di mattina, vengono lì con le armi spianate. Il capitano, un piemontese, ci diceva: “Non date le armi!“. Come facevamo a non darle? Ci ammazzavano. Toh, portàtele via! Avevo la mia mitragliatrice e la pistola. Gli ho dato tutto. I tedeschi ci hanno detto: “Siete liberi, la guerra è finita“. Ci hanno lasciati liberi tre giorni, potevamo girare come volevamo. Ma al quarto giorno ci hanno fatto prigionieri tutti. Ci hanno chiamati tutti al raduno. Poi ci hanno chiuso in un recinto di filo spinato, in mezzo alle piante d’ulivo. “Adesso siete nelle nostre mani. Dovete fare quello che diciamo noi“. Solo tre o quattro italiani sono andati volontariamente con i tedeschi. Nessun altro. Così siamo stati fatti prigionieri in 4.000. Siamo stati lì quattro giorni. Una mattina è arrivata un’autocolonna di camion, ci hanno caricati e portati ad Atene. Tre giorni, poi ci hanno caricati sul treno verso la Germania. Era la fine di settembre. Abbiamo passato 14 giorni e 14 notti sul treno merci. Da Atene a Hohenstein in Prussia, ora in Polonia. Dovevamo fare tutto sul treno, cagare e pisciare. Eravamo in 40 prigionieri per vagone. I bisogni li facevamo in certi buchi sul pavimento del treno. Da Vienna a Hohenstein ancora cinque giorni e cinque notti, l’uno addosso all’altro. Da mangiare passavano dentro pagnotte dure e gallette. Che fine! Tanti di noi sono morti, qualcuno anche sul treno: chi era debole e non ce la faceva. Noi non sapevamo niente di quello che succedeva in Italia. Non sapevamo neanche dove saremmo andati e a fare che cosa. I soldati tedeschi erano proprio cattivi: “Raus! Italiene kaputt!“.

Il lager a Hohenstein

Siamo arrivati in Prussia; scendevamo dal treno, e c’erano ragazzini di sette-otto anni che ci sputavano addosso a noi italiani: “Badogliani! Traditori!“. La Prussia era una pianura come da noi: un bel posto. Ci hanno diviso in diversi lager. C’erano tedeschi che parlavano italiano. Divisi in squadre, ci mandavano a lavorare. Io ero nel comune di Hohenstein. C’era un capo tedesco di sessant’anni, magro. Non era andato a militare perché malato di cuore. Allora anche i tedeschi anziani erano tutti richiamati per la mobilitazione generale. Lui mi ha detto: “Gut arbeit“. Che io ero bravo a lavorare. Se c’era qualche pacchetto di sigarette, lo dava a me. E allora, che cosa devi fare? Erano là tutti senza, e mi vedevano. “Galimberti, hai una sigaretta?“. Era la bramosia di fumare. E fumavamo tutti insieme.

Norimberga, 1944-45

Da Hohenstein ci hanno trasferito a Norimberga. Sono rimasto lì per 14 mesi. La città era soggetta a bombardamento quasi tutte le notti. Io lavoravo alla ‘Nural’, una fabbrica di pistoni di motori per aerei, treni, macchine. Sul tornio facevo 500-600 pistoni al giorno. Io avevo sempre fatto il contadino, ma ho dovuto imparare, se no erano legnate. Lì eravamo prigionieri italiani, polacchi, francesi, ungheresi, di tutte le nazionalità, e anche tante donne prigioniere. Per parlare ci arrangiavamo come si poteva. Poi sono stato alla ‘Mann’. C’erano, non esagero, più di diecimila operai. Facevano carri armati e ne uscivano 100 al giorno. Facevamo dieci ore al giorno, turno con turno. Il cibo era una pagnotta, un po’ di zuppa, e la ‘burlanda’, una specie di mortadella poco buona. Ma avevamo sempre fame. Appena eravamo un po’ liberi, andavamo in giro alla ricerca di quei buchi dove gettavano gli avanzi. E noi lì a raccogliere bucce di patate e qualche altra cosa ancora commestibile. Qualche volta abbiamo dovuto rubare il pastone ai cani. C’erano i bombardamenti. Avevamo capito che c’era pericolo. In quelle settimane si stringeva il cerchio: gli americani avanzavano. Io ero qui e lì c’era il corridoio della cantina per scendere a ripararsi. Un altro italiano stava facendo la barba, un bel giovanotto di Cremona. Una scheggia gli ha tagliato via la testa. La testa, completamente. Ho visto la testa che penzolava dal collo. Guarda come vanno le cose! Un altro giorno stava toccando a me. Noi ci eravamo rifugiati in una scuola di quattro piani e stavamo entrando in cantina. Tanti erano già sotto. Io avevo i miei attrezzi: il sacco alpino e un’altra borsa. Qui c’è la scala che andava giù. Mi ero chinato per prendere la borsa. Porca miseria, la granata mi ha beccato al piede. Sono stato fortunato, che non mi ha beccato la testa! Mi hanno portato giù in cantina. Poi mi hanno portato al bunker di cemento armato. Erano le 13 di un sabato di aprile, il 18 aprile. Era primavera. La guerra stava finendo. Sono stato ferito che già erano arrivati gli americani. L’ospedale civile era comandato da loro. Mi hanno trattato bene. Quando sono arrivato all’ospedale, il primo che mi ha messo le mani addosso è stato un infermiere tedesco. Mi ha detto: “Questo è un badogliano!“. E mi ha strappato la benda con rabbia. Allora è intervenuto uno dei nostri e mi hanno trattato diversamente.

Il ritorno: giugno 1945

Mi hanno portato da Norimberga a Bolzano con la colonna americana. Da Bolzano, con la corriera di uno di Melzo, ci hanno portato direttamente a casa. Era il giorno di mercato, un mercoledì, il 27 giugno 1945. La corriera mi ha lasciato giù proprio al Fontanile. Sono sceso con le stampelle. Mi ha visto mia nipote Anna. È stata la prima a vedermi. “Lo zio! Lo zio ha via la gamba!“, gridava. I miei genitori pensavano che non sarei più tornato. Era da cinque mesi che non ricevevano più posta. Ho visto per primo mio papà Alfonso: veniva dalla vigna con il bastone. Io ero lì con le stampelle. “Papà, facciamo la famiglia dei bastoni!“. Poi ho visto lo zio Giovanni e mio fratello Luigi. Lui non era andato in guerra. Lavorava alla Pirelli e quindi ha avuto l’esonero perché era una fabbrica bellica. A Norimberga, quando lavoravo alla ‘Mann’, ne ho trovati setto-otto di Cernusco, che lavoravano alla Pirelli. “Che cosa fate qua?“. Avevano fatto sciopero nel marzo 1943; i tedeschi li avevano fatti prigionieri e spediti in Germania. Mia mamma Ernesta, povera donna, quando mi ha visto dopo cinque anni! Non so se mi hanno fatto un pranzo speciale. Ero solo contento di essere a casa sano e salvo.»

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Angelo Colombo

Il greco della Doppia

«Vorrei raccontare quest’episodio per rendere testimonianza a tutte quelle persone che allora rischiarono la vita per spirito di solidarietà verso uno straniero che era ospite in una casa di contadini alla cascina Doppia a Caponago. Come e perché “il greco” fosse arrivato qui non saprei dire, forse era un disertore catturato dall’esercito italiano e poi scappato. In un’altra cascina, la cascina Valera di Pessano, c’era un suo compaesano, e ogni domenica si trovavano, in cascina c’era un’osteria. Una domenica, uno dei due era un po’ alticcio, sono venuti alle mani.

Angelo Colombo

Era il gennaio 1945. Mi ricordo un giorno molto freddo, tanta neve, tanta nebbia. Il lunedì mattina, potevano essere le cinque, le sei, sentiamo rumori di camion, camionette, blindi: tedeschi e fascisti hanno circondato la cascina. Era successo che il greco della cascina Valera aveva denunciato il suo amico al comando tedesco, probabilmente di Monza. Sentendo i tank che arrivavano il greco si era prontamente nascosto in un pagliaio aiutato dai contadini. I fascisti arrivarono direttamente dalla famiglia che lo ospitava, ma loro si rifiutarono di ammettere che era a casa loro, e in qualche modo era vero, perché questa persona lavorava un po’ per tutti. Tutti, almeno i grandi, sapevano dove era nascosto. Visto che non veniva fuori, il comandante tedesco, aiutato per la lingua da un fascista, ha dato un ultimatum. “Se non viene fuori ammazziamo cinque uomini”. Vennero quindi presi e messi al muro delle stalle due uomini e i loro due figli e un pastore, un giovane che non c’entrava nulla che veniva a svernare in cascina con le pecore, pronti a fucilarli. Eravamo terrorizzati. Il greco, capendo cosa stava per succedere, venne fuori, con un atto di coraggio, di eroismo direi. La storia fortunatamente è finita bene, non è stato fucilato, è stato preso e portato a Monza, e a maggio lo abbiamo rivisto libero. Vorrei sottolineare il comportamento degli abitanti di quella cascina, di quella gente semplice, che coscientemente non ha voluto fare la spia, denunciare dov’era nascosto il greco, pur convinti che sarebbero stati fucilati i cinque uomini al muro. Quanto coraggio, quanto spirito di sacrificio c’era nella gente di quell’epoca.
Vorrei che quest’episodio venisse conservato perché è un atto di eroismo sia da parte del greco che da parte dei contadini che non hanno voluto rivelare il suo nascondiglio.»

Cernusco sul Naviglio 11 giugno 2008

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Video: Il coraggio e il greco

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