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Melzi Luigi
Luigi Melzi

Luigi Melzi nasce a Cernusco sul Naviglio il 30 maggio 1914.
Operaio meccanico, coraggioso antifascista, era sorvegliato e spesso minacciato dai fascisti locali. Dopo l’8 settembre 1943 lasciò Cernusco per andare a combattere nelle formazioni dei partigiani della montagna. Dal 29 maggio 1944 combatté presso il distaccamento “Vercellina”, della 12a Divisione Garibaldi “Nedo”, comandata da Franco Moranino (“Gemisto”). Il Melzi (nome di battaglia “Fraister”) cadde in combattimento il 22 febbraio 1945 alla frazione Bulliana del Comune di Trivero (Vercelli).

Il comandante Gemisto (a sinistra) sulla tomba di Luigi Melzi “Fraister”

Ricordiamo che la 12a Divisione garibaldina “Nedo” era sorta nel Biellese orientale nel maggio-giugno del 1944 dalla riorganizzazione di alcuni battaglioni operanti nella Val Strona e nella Val Sessera, agli ordini di Pietro Pajetta (“Nedo”), caduto in combattimento nel febbraio di quell’anno. La “Nedo”, all’inizio, quand’era ancora una brigata, controllava la zona di Cossato, Vallemosso, Trivero, Coggiola, Pray, Crevacuore, fino a lambire la pianura.
Giorgio Perego

Materiale disponibile

Biografia [.pdf]

 

Alberto Gabellini
Alberto Gabellini

Alberto Gabellini nasce a Cambiago il 4 febbraio del 1916.

Alberto Gabellini

Alberto Gabellini

 

Orfano di padre, ucciso dai fascisti, lavora alla Isotta Fraschini come operaio. Arrestato il 29 aprile del 1937, viene imprigionato a San Vittore e quindi spedito al confino sull’isola di Ponza, dove rimane per quattro anni. Dopo l’8 settembre, entra nella formazione gappista “E. Rubini” e, con il nome di battaglia di “Walter”, compie diverse azioni, tra cui l’eliminazione del gerarca Gerolamo Crivelli avvenuta a Monza il 25 novembre del 1943. A seguito di altre azioni, è costretto a rifugiarsi con i suoi compagni sulle montagne orobiche, dove viene catturato il 14 gennaio del 1944 e tradotto nelle carceri di Bergamo. Condannato dal tribunale fascista alla deportazione in un campo di concentramento in Germania, durante il trasferimento riesce a fuggire e si rifugia a Cambiago, dove riprende la lotta partigiana. Il 4 settembre 1944, insieme a componenti della 103a Brigata Garibaldi, elimina il segretario federale repubblicano di Pisa che si era nascosto a Melzo. Il 6 ottobre “Walter” organizza il disarmo della caserma di Vaprio e il 19 partecipa all’incendio dell’aeroporto di Arcore. Viene arrestato a Monza il 5 gennaio del 1945 e fucilato a Pessano il 9 marzo insieme ad altri 6 combattenti.
La figura di Gabellini è una delle più significative della zona.

I sette martiri di Pessano

L’8 marzo 1945 una SAP (Squadra Azione Partigiana) compie a Pessano un’azione contro il comandante dell’Organizzazione Speer di Pessano, che rimane ferito. La notizia si diffonde rapidamente nel paese, tanto che tutti gli uomini al di sotto dei cinquant’anni fuggono quella stessa sera per timore di un rastrellamento generale. Il giorno successivo, alle 18 circa, su un camion scortato da militari tedeschi e italiani, otto ostaggi provenienti dal carcere di Monza vengono condotti al comando tedesco presso le scuole elementari per essere fucilati sul posto dove era stato ferito l’ufficiale tedesco. Testimoni presenti all’evento raccontano: «Sul camion, incatenati, erano otto giovani, dalle vesti lacere e dal viso smunto per i patimenti e le percosse. Tutti sapevano che in paese, il giorno prima, era stato ferito un ufficiale tedesco. E tutti sapevano cosa doveva accadere, senza avere il coraggio di dirlo…». Sono le 18.50 del 9 marzo quando i fucili delle SS e degli ufficiali repubblichini eseguono la rappresaglia decisa in poche ore e paventata dai paesani in una notte di terrore. Vengono uccisi sette giovani partigiani, tutti della zona o brianzoli, prelevati dal carcere monzese: Alberto Gabellini, detto “Walter”, della 193a e 119a Brigata Garibaldi, 30 anni, di Cambiago; Mario Vago della 182a Brigata Garibaldi, 22 anni, di Busto Arsizio; Romeo Cerizza della 110a Brigata Garibaldi, 22 anni, milanese; Angelo Barzago della 201a Brigata Giustizia e Libertà, 20 anni, di Bussero; Dante Cesana, nome di battaglia “Marco”, sottotenente della 119a Brigata Garibaldi, 25 anni, di Carate Brianza; Claudio Cesana, nome di battaglia “Tito”, sottotenente, 21 anni, di Carate Brianza; Angelo Viganò, nome di battaglia “Tugnin”, sergente della 119a Brigata Garibaldi, 25 anni, di Carate Brianza. L’ottavo prigioniero, Carletto Vismara, un ragazzino, viene graziato solo per la sua giovanissima età, ma viene costretto ad assistere all’eccidio. Grazie al parroco, don Varisco, le salme, invece di essere sepolte in una fossa comune, come era stata deciso dal comando fascista, ricevono una giusta sepoltura nel cimitero di Pessano, dopo la messa celebrata dal parroco stesso alla presenza di tutta la popolazione.

Da sinistra: Mario Vago, Romeo Cerizza, Angelo Barzago

Da sinistra: Mario Vago, Romeo Cerizza, Angelo Barzago

 

Da sinistra: Dante Cesana, Claudio Cesana, Angelo Viganò

 

Dalla fine della guerra, tutti gli anni viene ricordato il martirio di quei giovani antifascisti, con una manifestazione, sempre molto partecipata, promossa dall’ANPI locale e dall’Amministrazione comunale, a cui aderiscono le sezioni ANPI di tutta la Martesana. Caratteristica peculiare di questa manifestazione è la partecipazione di una delegazione da Grancona, nel Vicentino, così spiegata dal presidente dell’ANPI di Pessano: «Venivano qui ogni marzo, e non sapevamo perché. Scoprimmo che molti dei loro ragazzi erano stati amici dei giovani fucilati, compagni di lavoro alla Falck o in altre grandi industrie di allora. E che anche Grancona, l’8 giugno del 1944, vide una strage di giovani partigiani, attirati in un’imboscata, uccisi e gettati nel fiume».

Testimonianza di Rita Caprotti

«Quella mattina Renzo, il fratello di Alberto, era venuto a cercarmi per andare insieme a Pessano. Aveva sentito brutte notizie su suo fratello, sono andata con lui e così l’ho visto, steso a terra con gli altri sei fucilati, aveva ancora sulla testa i segni della tortura, il segno di un morsetto sulla fronte, l’ho ancora chiaro nella mente dopo tanti anni».
Chi parla è Rita Caprotti, staffetta partigiana, nata a Cambiago, in provincia di Milano, il 30 giugno 1924, che così ricorda Alberto Gabellini.

«Ci conoscevamo da sempre, la sua era una famiglia perseguitata, il padre era stato ammazzato dai fascisti nel 1922, la madre si è battuta tanto per questo figlio». Rita ha ben presente quegli anni, orfana di madre fin da piccola, doveva badare ai due fratelli e lavorava alla Magneti Marelli; ricorda che partecipava a riunioni a Cassano e Trezzo sull’Adda, «prendevo il tram con i documenti addosso, nascosti sotto i vestiti», portava il materiale di propaganda nelle fabbriche di Sesto San Giovanni.
«Gabellini lavorava alla Isotta Fraschini, certe mattine si alzava molto presto, alle 4, per preparare il camion con i viveri e i vestiti da portare ai partigiani prima di andare al lavoro. Mi affacciavo alla finestra e lo vedevo caricare il camion, tante volte sono scesa e l’ho aiutato. Poi l’hanno scoperto e non l’ho più visto, ho saputo che l’avevano mandato al confino, a Ponza e poi alle Tremiti e, dopo l’8 settembre era andato in montagna con i partigiani».
Rita dopo la Liberazione ha continuato a fare politica e a impegnarsi nel sindacato, dividendo tutta la sua vita fra questa passione e la famiglia. Ancora oggi, nonostante la non più giovane età, lucidissima e con una tempra da far invidia, è impegnata nel sociale e, come dice lei «si occupa degli anziani».

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Giovanni Codazzi

Non ho mai conosciuto direttamente mio nonno Gianni, avevo 6 mesi quando è morto, improvvisamente, nel 1981. Ho solo qualche foto di quando era a militare, guardia di frontiera nel Norditalia, poi in Albania o immagini di quando festeggiava coi muratori suoi colleghi la conclusione di un tetto di una nuova casa. È stato attraverso i racconti di mio zio, Giuseppe Comi, partigiano con lui nella 105a Brigata Garibaldi SAP, che ho scoperto come, a costo di mettere a disposizione ogni giorno la propria vita, mio nonno abbia lottato per difendere gli ideali di libertà e giustizia che ancora oggi sono così fondamentali.
Anni Trenta, tempi diversi. Giovanni, nato a Pieve Fissiraga (Lodi) nel 1920, con la sua famiglia di contadini si era trasferito a Pioltello alla cascina Bareggiate, dove la vita dei campi lasciava poco tempo per lo studio e la cultura ma dove i valori veri si concretizzavano e prendevano forma ogni giorno nella fatica di vivere, nelle ingiustizie e nelle prevaricazioni subite, nelle violenze all’olio di ricino, nella mancanza di libertà di pensiero ed espressione. Un ragazzo normale di vent’anni, come tanti, lavoro duro tutta la settimana, e la domenica poche ore in balera. Poi arriva la guerra. Mio nonno lascia la cascina Bareggiate a Pioltello, viene arruolato come guardia di frontiera al confine nord-est italiano per essere poi trasferito in Albania.

A sinistra: Giovanni Codazzi (primo a sinistra) con due compagni in Albania (1942)
A destra: Giovanni Codazzi in Albania (1943)

Solo qualche riga alla mamma Elisa per dire che “tutto va bene”, per non preoccuparla, per sapere come stanno i fratelli più giovani, Giuseppe, Romano e Maria, e il papà Luigi. Nel 1943 arriva finalmente una licenza, tanto desiderata dopo anni di assenza da casa, la prima che sarà anche l’ultima, non farà più ritorno in Albania: c’è stato l’8 settembre, è stato firmato l’armistizio, la guerra è finita! O forse no. Bisogna nascondersi, i tedeschi stanno rastrellando tutta la zona. Sono in tanti come lui, molti anche più giovani, ragazzini quasi, con il desiderio di fare qualcosa per uscire da questo incubo, da questa oppressione che si fa ogni giorno più forte. Ed è con un amico, Pino, Giuseppe Comi, che ai tempi frequentava la sorella Maria, staffetta partigiana poi sua moglie, che ha inizio la militanza clandestina. Di giorno sempre all’erta, nascosto in cascina, lavorando nei campi, nel terrore di essere visto o denunciato da qualche delatore, e la sera all’opera all’interno dei comitati clandestini, col nome di battaglia di “Romano”. Il perché di quel nome, uguale a quello reale di suo fratello, non l’ho mai saputo. La mamma a casa, che non chiudeva occhio fino al mattino quando lo sentiva rientrare in bicicletta, ormai all’alba (“anche questa volta è tornato, ma fino a quando?”), preparava la colazione con quel poco che c’era e senza chiedere nulla di quello che era successo nella notte: “un sabotaggio, un attacco ai treni, scritte sui muri contro l’oppressore” cose non dette ma tradite dai vestiti strappati, sporchi, dal colore della vernice rimasta sulla manica della camicia…
“Con il cuore in gola” non è solo il titolo di un libro sui partigiani cernuschesi, ma è lo stato d’animo durato mesi, anni, fino al 25 aprile del 1945. Gli archivi della 105a sono andati distrutti, è difficile tracciare un quadro preciso delle azioni, ma i risultati sono ancora sotto gli occhi di tutti.
Il dopoguerra, la ricostruzione, finalmente, dopo tanto sperare, si può realizzare un mondo più giusto, più equo, più solidale… Si può ricominciare, si può. Gianni conosce Cherubina Lamperti, tre mesi dopo, nell’agosto del 1946, si sposa, si trasferisce a Carugate, cascina Graziosa.

A sinistra: Giovanni Codazzi (a sinistra) durante il Carnevale del 1947 alla cascina Graziosa
A destra: Giovanni Codazzi (il secondo in basso da destra) insieme a colleghi muratori (1953)

Ogni giorno si reca a Milano in bicicletta, per ricostruire le case, dalle macerie nasce nuova vita, e poi al rientro e nei momenti liberi al lavoro nei campi o ad accudire gli animali. Durissimo, per tutti. Ciò che si è vissuto intensamente, la paura, la gioia, la sete di giustizia sostengono la speranza in un modo diverso, migliore; sono sempre presenti, in ogni azione quotidiana, nei rapporti con gli altri, si fanno spazio nell’educazione dei figli Luciano e Marino, nelle associazioni sociali delle ACLI, nella perseveranza delle donazioni di sangue così preziose per l’AVIS.

Giovanni riceve il premio AVIS dal dott. Orlandi a Carugate (1970)

Non ho mai conosciuto direttamente mio nonno Gianni, ma lo ritrovo spesso in quello in cui anch’io credo, lo ritrovo quando chiedo giustizia, il rispetto dei diritti umani, quando cerco di rendere possibile una vita migliore ai bambini delle baraccopoli di Santo Domingo, quando credo che esista un modo più giusto di utilizzare le risorse del pianeta… sono passati oltre 60 anni da allora, la Resistenza ha preso altre forme, i principi ispiratori sono gli stessi.
Roberto Codazzi

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Biografia [.pdf]

battaglia
Celso Battaglia

Celso Battaglia è nato a Vinca, località delle Alpi Apuane, il 1° Agosto del 1933 e ha vissuto nel paese d’origine fino al 1958. Sino a quella data ha lavorato come cavatore nel bacino marmifero del Sagro, a fianco del padre Renato, del fratello Attila, e del suocero Federico, che vengono frequentemente rammentati nei suoi racconti e nelle sue memorie. Sposato dal 1956 con Lauretta Federici – anche lei vinchese – ha tre figli, tutti nati in Francia dove Celso è emigrato nel 1958 vivendo e lavorando da operaio presso una grande industria vetraria nel centro-est di quel paese. La lontananza non ha mai intaccato – anzi ha amplificato – il suo legame di traboccante amore per Vinca, con cui ha mantenuto un collegamento insostituibile e vitale. Sia Celso Battaglia che sua moglie sono superstiti dell’orribile strage che il 24 agosto 1944, per quattro giorni e quattro notti, annientò la popolazione del paesino delle Apuane e durante la quale entrambi ebbero i nuclei familiari di appartenenza decimati dalla furia e dalla barbarie delle milizie nazifasciste. Celso, allora, aveva undici anni e quella terribile esperienza, raccontata nel suo libro Vinca – la sua storia e il suo martirio, lo segnerà profondamente per tutta la vita.

Vinca: monumento in ricordo dell’eccidio

Celso Battaglia nel 1979 è rientrato in Italia, stabilendosi in provincia di Pisa dove, dando un naturale sbocco al suo carattere teso al prodigarsi per la comunità sociale, ricopre numerosi incarichi nell’associazionismo e nella cooperazione. Nei suoi sogni e desideri è sempre stato presente l’incontenibile bisogno di tramandare un forte sentimento di amore e di riconoscenza verso la sua terra unito alla ferma volontà di non dimenticare mai e di raccontare sempre, e a più persone possibili, ciò che i suoi occhi di ragazzino avevano visto in quell’agosto del 1944. Questi sogni si sono ulteriormente concretizzati, oltre che con un’instancabile opera di testimonianza e di memoria presso i giovani delle scuole di mezza Italia (comprese quelle di Cernusco sul Naviglio), con la scrittura di un secondo libro di poesie di riflessioni intitolato Col cuore e con la mente, a cui Celso ha dedicato energie, tempo, ricerche e sacrifici sostenuti da convincimenti profondi sui valori della memoria, della fratellanza e della libertà.

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L’eccidio di Vinca [.pdf]

Antonio Castoldi

Antonio Castoldi nasce a Brugherio il 19 maggio 1914. Domiciliato a Cernusco sul Naviglio in via Pietro da Cernusco (presso la “Curt da la treca“), nel 1943 era operaio presso la Pirelli di Sesto San Giovanni. Egli è stato tra i protagonisti degli scioperi di quell’anno che, iniziati a Torino il giorno 5, ripresero poi a Milano il giorno 24; scioperi che andavano ben oltre i motivi di malcontento economico, inserendosi in una precisa prospettiva politica: la fine della guerra e il crollo del fascismo.

Antonio Castoldi con la consorte Dina Pombi (1939)

Antonio Castoldi è stato uno dei 19 operai della Pirelli arrestati e processati per aver partecipato agli scioperi del marzo 1943, con questa imputazione: “Quali mobilitati per il servizio al lavoro alle dipendenze dello stabilimento ausiliario Pirelli di Milano Bicocca, in concorso tra loro, nei giorni 24 e 25 marzo 1943, ostacolavano il corso del lavoro sospendendo lo stesso per alcuni periodi di tempo protrattisi talvolta fino a due ore“.
La mattina del 24 marzo 1943, Antonio Castoldi aveva trovato, presso il suo posto di lavoro, un pacco di fogli de “l’Unità” con una nota che lo invitava a diffonderli nel suo reparto prima che tutta la maestranza fosse entrata in fabbrica. I giornali erano stati certamente lasciati da un suo collega di lavoro, un comunista, che già da tempo aveva avvicinato il Castoldi e del quale il Nostro aveva cominciato a condividere le analisi politiche sulla situazione del Paese. Antonio Castoldi, senza essere pienamente cosciente del valore politico che avrebbe dovuto assumere quello sciopero, fece ciò che sentiva giusto e distribuì quei fogli, sui quali erano riportate richieste di aumenti salariali, di aumento delle razioni base di viveri e la proclamazione dello sciopero. Il giorno dopo, la sera del 25 marzo, si presentavano a casa sua un messo comunale e il maresciallo dei carabinieri con il mandato di cattura. Castoldi aveva 28 anni e lasciava moglie e due figli in giovane età.

Tessera Associazione Nazionale Perseguitati Politici Antifascisti

Rinchiuso a San Vittore, più volte interrogato e picchiato, vi rimase per tre mesi; periodo durante il quale venne a contatto con diversi prigionieri politici, di alcuni dei quali subì il fascino della levatura culturale. Il processo, militare e a porte chiuse, si tenne a Milano e si protrasse per una settimana. Dei 19 operai della Pirelli arrestati, solo lui e Alfredo Ciceri vennero condannati: Castoldi ebbe la pena di un anno e tre mesi di reclusione, con la condizionale. Le prove del suo reato erano basate sulle testimonianze di un ingegnere e di un operaio della Pirelli.
Dopo questa sentenza, il Castoldi ebbe vita difficile alla Pirelli: dovette, infatti, abbandonare il lavoro e vivere di espedienti cercando di sfuggire all’odio dei fascisti. Entrato, poi, nella 107a Brigata Garibaldi “Libero Temolo” (un assistente della Pirelli fucilato a Piazzale Loreto) fu protagonista dell’insurrezione armata e della Liberazione di Sesto San Giovanni.
Con la rinascita della democrazia, Castoldi ricoprì per alcuni anni la carica di segretario politico della sezione del PCI di Cernusco.
Giorgio Perego

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Biografia [.pdf]

Documenti [.pdf]

Franco De Ferdinando

Franco De Ferdinando nacque a Milano il 14 maggio 1920. Fu partigiano della Divisione Perretta-Puecher in qualità di vicecomandante del distaccamento Eupilio, che operava nella Brianza comasca, da Erba a Cesana. Ricorda De Ferdinando:

«Studente universitario, venni chiamato alle armi nel 1942; incorporato nel 27° Reggimento Artiglieria, ho frequentato il corso allievi ufficiali artiglieria alpina a Bra.
Dispensato per malattia, ho trascorso un mese in convalescenza, non riuscendo così a terminare il corso ufficiali. Rientrato al 27° Artiglieria, fui inviato a un reparto che presidiava lo stabilimento Lagomarsino di Milano dove, il 12 settembre 1943, i tedeschi ci arrestarono e rinchiusero nella caserma di via Vincenzo Monti.
Fuggito dalla caserma, ho raggiunto la mia famiglia, sfollata a Carella, frazione di Eupilio, dove ho iniziato a svolgere attività partigiana. I miei primi contatti li ho avuti con il colonnello Valsecchi, ufficiale degli Alpini, delle Fiamme Verdi, e con Giancarlo Puecher.
Nella zona nella quale operavo era stanziato il 27° Artiglieria, che dopo l’8 settembre 1943 abbandonare armi e munizioni. Primo compito dei partigiani era quello di recuperare materiale bellico e di avviare alla lotta di liberazione il maggior numero di soldati sbandati.
Numerosi furono i rastrellamenti in zona da parte di SS e fascisti.
Il mio gruppo ha anche aiutato nove ebrei (già nascosti nella villa della contessa Olga Ponti Porro, a Canzo) a sconfinare in Svizzera.
Il 24 settembre 1944 venni catturato e Eupilio e ho rischiato di finire i miei giorni davanti a un plotone d’esecuzione già schierato. Con uno stratagemma evitai l’esecuzione e venni rinchiuso per una ventina di giorni in una cella della caserma della GNR di Asso.
Rilasciato in libertà vigilata, mi davo alla macchia. Ho partecipato alla liberazione del partigiano Rinaldo Chiatelli (nome di battaglia Chiari), a diversi scontri armati con tedeschi e fascisti, e alla loro cattura.»

Franco De Ferdinando nel 1966 si trasferì a Cernusco, dove, oltre a essere uno stimato architetto, partecipò attivamente alla vita politica, sociale e culturale.
Si spense nel 2015.

 

Angelo Stocchetti

Mio padre, Stocchetti Angelo, nasce a Camisano in provincia di Cremona da una famiglia di contadini, il primo di cinque figli. Fin da bambino si vede la sua voglia di imparare a studiare, ma le esigenze economiche della famiglia fanno sì che a 10 anni inizi a lavorare nei campi e nella stalla dopo aver terminato la scuola al mattino. Riesce a frequentare fino alla V elementare. Poi inizia la carriera dura di “Mungitore”, quella che ora svolgono gli indiani nelle stalle del cremonese. Già nella gioventù si manifesta la sua tendenza politica: per non dare noia e per non far avere rappresaglie alla famiglia, la porta avanti clandestinamente, senza mai farsi prendere dalle camice nere.

angelo stocchetti da bambino

Il 7 marzo del 1941 viene chiamato alla visita di leva, in quel tempo gli balena l’idea di disertare, ma sempre per rispetto… Il 25 gennaio del 1942, non ancora ventenne, viene chiamato alle armi presso l’VIII fanteria, nella caserma di via Vincenzo Monti a Milano. L’1 luglio parte per la Russia con il II Reggimento di Marcia 54° battaglione facente parte dell’ARMIR. Partono dopo aver partecipato alla benedizione delle armi in piazza Duomo da parte del Cardinale Schuster, con la famosissima frase pronunciata dall’allora celeberrimo cardinale di Milano: “Cosa volete… c’è la guerra… se sarete fortunati tornerete alle vostre case…”. Il 21 settembre 1942 arriva a destinazione, il 3 novembre 1942 viene trasferito alla divisione Sforzesca, si trova sul fronte russo, medio del Don, per l’operazione 199 del 18 novembre 1942, con abiti estivi e armamenti inadeguati per il fronte di fuoco dei russi, cosicché il 24 dicembre 1942, dopo una furiosa battaglia, la notte di Natale, in mezzo a metri di neve e fuoco, viene fatto prigioniero dai russi.

angelo stocchetti

Non parlava mai di questa tragedia vissuta, l’unica cosa che siamo riusciti a sentire dalle sue labbra è che i soldati morivano in piedi, congelati, e che era una distesa bianca di neve e rossa di sangue. Da qui viene trasferito nel campo di prigionia 105 di Tombon in Siberia, questo per lui paradossalmente è la salvezza. Poi succede un fatto che fa sì che non lavori in questi campi: all’appello dei russi, venne chiesto chi dei prigionieri fosse studente, lui alzò la mano e da lì iniziò la sua prigionia, studiando il russo e imparandolo a scrivere. Un aneddoto voglio raccontare prima di andare avanti con la storia: negli anni ’60 quando l’Italia era ancora divisa in schieramenti politici, a Milano inizia la fiera campionaria, e l’Unione Sovietica era vista come quella che mangiava i bambini, lui faceva da interprete agli amici e alle persone che si affacciavano agli stand con titubanza per aver paura di incontrare l’impero del male. La sua prigionia dura fino al 14 novembre 1945. Da qui ci vogliono 60 giorni di treno per tornare in Italia. Il 14 gennaio 1946 viene ricoverato all’Ospedale militare di Varese per gli accertamenti. Il 20 febbraio 1946 viene messo in licenza di convalescenza di 30 giorni con esiti di “congelamento” al ginocchio destro e ai piedi. Il 22 marzo 1946 entra ancora nell’Ospedale militare di Milano per ulteriori accertamenti, ma visto gli esiti uguali all’Ospedale militare di Varese viene messo in licenza di convalescenza per ulteriori 90 giorni. Il 25 agosto 1946 viene collocato in congedo illimitato. Da quel momento riprende la sua vita “dura” di contadino. Nel 1947 viene proposto per la croce di guerra dopo minuziosi accertamenti; alla fine dell’anno perviene dal comando dell’arma la negazione, per il mancato raggiungimento dei giorni utili sul fronte di guerra: ne ha fatti 92 contro i 120 richiesti… considerati proprio come carne da macello. Spesso diceva: “La croce è meglio che se la sono tenuta… io intanto nel campo di prigionia ho salvato la pelle”. Nel 1948 arriva una bella notizia, gli viene concessa la pensione di guerra; questo momento dura solo fino al 1951, fino a quando arriva un telegramma dal comando generale dell’esercito che comunica la sospensione senza nessun motivo. Quando vi è gente che la guerra l’ha vista da lontano…, questa era l’Italia di allora, come in fondo quella di oggi, e i privilegi beneficiano chi non si schiera mai ed è sempre attendista. Nel 1950 si unisce in matrimonio con mia madre, tre anni dopo nasce mio fratello Gianfranco. Nel 1954 decide di trasferirsi a Gessate per migliorare le sua vita e inizia a lavorare in fabbrica. Diventerà un tecnico specializzato nella saldatura ad ultrasuoni, cambiando completamente vita, da “contadino” sotto la mezzadria ad “operaio specializzato”. Conduce una vita tranquilla di lavoro e famiglia.

angelo stocchetti

I suoi hobby erano: funghi, lumache, rane, tornare sempre al paese nelle sue fontane sorgive a pescare i lucci, ma soprattutto il “Partito Comunista Italiano”, a cui era tesserato fin da giovane. Nel 1958 nasco io.

Mi ha dato l’opportunità di formarmi culturalmente e professionalmente, come del resto fanno tutti i padri. Nel 1979 finisce la sua attività lavorativa, ma non sta mai fermo, in quanto aveva una passione innata per la natura: quando veniva chiamato a mungere le mucche lui correva, aiutarle a partorire lo sapeva fare meglio di un veterinario, e poi la cosa che nessuno sapeva svolgere era tagliare le unghie alle mucche, “il famei… come si dice qui”, oltre ad una passione sfrenata per l’orto. Il 28 aprile 1989, a 66 anni un improvviso malore lo toglie dalla vita terrena. Vorrei ricordarlo come uomo distinto e umoristico, aveva un senso dell’humor incredibile e professionale… queste sono le parole che mi vengono da dentro per ricordarlo. Spero che questo piccolo contributo possa servire a far sì che non si paragoni mai chi ha combattuto per la libertà a chi ha “SBAGLIATO” come dice qualcuno, perché se questo sbaglio si avverava la dittatura era la nostra casa, cosa dovrei dire io che a mio padre la pensione l’hanno tolta senza nessun motivo? Allora è giusto darla a questa gente? Anche mio padre ha dato il suo contributo all’ITALIA come i partigiani, ma con altre sofferenze: sbattuto in una terra dove avrebbe preferito non andarci per quelle circostanze, ma che poi ha sempre amato immensamente. So che può sembrare un’utopia, ma ci spero sempre che i giovani, e i meno giovani, si sveglino dal torpore nel quale i nostri governanti li hanno indottrinati, e sappiano fare tesoro di queste persone portatrici di libertà, giustizia e pace, valori fondanti che hanno permesso che si possa realizzare la nostra carta costituzionale.

Tre aneddoti

Per concludere vorrei ricordare ancora degli aneddoti un po’ umoristici e un po’ che danno l’idea della rabbia che covava dentro dal rientro dalla Russia. Mia nonna, una donna dell’Ottocento, avendo avuto la notizia della scomparsa del figlio da Radio Mosca, che pur di averlo a casa avrebbe fatto di tutto, si reca da una di queste presunte guaritrici e le spiega la situazione chiedendo se “vede” suo figlio, la presunta maga dice che lo “vede” ma che mangiano i bambini a pranzo e a cena. Una volta tornato, mio padre viene a conoscenza da mia nonna di questo fatto, si reca personalmente da quella che aveva il cosiddetto “segno”, lei vedendolo ne rimane entusiasta, parlando del più e del meno ad un certo punto lei gli chiede che cosa mangiavano in Russia, mio padre in risposta: “Mangiavamo un bambino in due”. Tornato dalla Russia sapeva chi erano stati i capi fascisti del suo paese, la rabbia covata per i patimenti subiti per colpa di questa gente era arrivata all’esasperazione. Uno di questi capi era una donna: l’hanno presa, rasati i capelli a zero e pitturato il capo di nero. Dopo hanno preso un cavallo, allora i poveri contadini non avevano il trattore, hanno appeso le redini al collo e l’hanno trascinata per un po’ di tempo, una volta fermato il cavallo hanno scritto sul cartello qui c….o e p….o metà al duce e metà al fascio. Un’altra volta hanno preso i cinque capi fascisti del paese, li hanno portati alla Casa del Popolo e facendoli salire sul tavolo in mezzo alla sala li hanno fatti cantare bandiera rossa.

Erminio Stocchetti

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Biografia [.pdf]

Roberto Camerani

Roberto Camerani è nato nel 1925 a Triuggio, in provincia di Milano. Giovane antifascista, nel dicembre 1943 viene arrestato dai tedeschi e deportato, prima al campo di Mauthausen, poi nel sottocampo di Ebensee. Vive l’estrema sofferenza del lavoro nelle gallerie e, quando il 6 maggio 1945, insieme ai compagni, viene liberato dall’esercito americano, è in fin di vita. Ricoverato e curato dalla Croce Rossa, dopo un periodo di convalescenza, torna in Italia, dove si sposa e inizia a lavorare. È stato un testimone instancabile fino agli ultimi giorni. Ha scritto un libro dal titolo Il Viaggio, in cui racconta la sua esperienza di deportato. Ha vissuto a Cernusco sul Naviglio, dove è morto il 20 luglio 2005.

L’infanzia

Roberto Camerani nasce a Triuggio il 9 aprile 1925. Vive a Villa Raverio, a Monza, a Milano. Riceve un’educazione fascista ed è entusiasta della guerra. Ma la Storia lo tocca da vicino, un fratello combatte sul fronte iugoslavo, e così inizia a riflettere.

La scelta e l’arresto

Milano è martoriata dai bombardamenti, i Camerani sfollano a Cernusco sul Naviglio. Dopo l’8 settembre 1943, Roberto passa alla Resistenza. È un ingenuo ragazzo che si espone con un’opera di propaganda semplice e scoperta. Il 18 dicembre 1943, con cinque compagni, viene arrestato e rinchiuso a San Vittore a Milano. È accusato di delitti politici e, il 4 marzo 1944, viene deportato in Austria.

Mauthausen e poi Ebensee

Roberto arriva a Mauthausen, dove subisce un sinistro rito d’accoglienza: visita medica, controllo dei genitali, rasatura. Gli tolgono abiti e dignità. Non ha più nome, è un numero: 57555. Dopo la quarantena viene trasferito ad Ebensee e destinato agli scavi in galleria. A Ebensee impara a sopravvivere, ad evitare punizioni fatali; a non pensare. Scava pietre, e le pietre scavano lui: perde trenta chili. Il 6 maggio 1945, all’arrivo degli americani, non è in grado di muoversi. Un giorno in più e sarebbe stato troppo tardi.

12 zollette di zucchero

Roberto attribuisce la propria salvezza a dodici zollette di zucchero avute dagli americani, paglia secca che ravviva un fuoco morente. Dopo la convalescenza a Bad Ischl, si rimette e ritorna in Italia. Ritrova la famiglia, sua madre, che come lui ha perso trenta chili.

A sinistra e al centro: Roberto Camerani (1945)
A destra: Roberto Camerani (1950)

La vita riprende

Inizia a lavorare e nel 1955 si sposa. Per anni non parla della propria deportazione. Ma, nel 1981, la moglie Mariuccia lo convince a tornare a Mauthausen. Incontra gruppi di studenti che ascoltano una guida, e capisce cosa deve fare.

La testimonianza

Comincia un capitolo nuovo nella sua esistenza, costellato di incontri, di viaggi continui verso l’Austria, di racconti ripetuti sempre con la vibrante capacità di trasmettere un messaggio: l’invito ad assumersi le responsabilità del vivere.

Un viaggio che deve continuare

Roberto Camerani muore il 20 luglio 2005. Fino all’ultimo, nonostante la malattia, parla a giovani e adulti, con una un’umanità che gli procura stima e affetto. Rimane oggi la forza positiva della sua testimonianza: «Sono un gabbiano, le mie ali sono ormai grigie, ma non stanche di volare: la voglia di vivere mi spinge sempre avanti e lontano in una ricerca instancabile di cose. Ho avuto fortune e sfortune e proprio per questo sono convinto che la vita sia una cosa meravigliosa».

Associazione Roberto Camerani

Materiale disponibile

Biografia [.pdf]

L’ultima lettera di Roberto [.pdf]

Khao I Dang (19 febbraio 1981) [.pdf]

Il ritorno a Mauthausen (26 giugno 1982) [.pdf]

Giovanni Castorani

Giovanni Castorani, detto Gianni, nasce a Piazzola sul Brenta, in provincia di Padova, il 3 Novembre 1924. L’8 settembre 1943 Gianni vive a Vaccarino, frazione del Comune di Piazzola sul Brenta, ha quasi 19 anni e segue i corsi di ingegneria meccanica all’Università di Padova, studente temporaneamente esentato dal servizio militare di leva. Ma vista la situazione che vive il Paese dopo l’armistizio, con il suo amico d’infanzia Luigi Cavinato sceglie di non restare alla finestra e di partecipare alla Liberazione dell’Italia. La meta designata è il Sud già liberato dagli angloamericani, a Taranto c’è lo zio di Luigi, il maggiore Silvio Cavinato, ufficiale di Marina, che aiuta i due ragazzi ad arruolarsi come volontari di guerra nel Battaglione Bafile.

 

Gianni Castorani e Luigi Cavinato

Luigi Cavinato ha raccolto i ricordi di questa esperienza in 8 Settembre 1943 – Ricordi indimenticabili della mia vita, ed ecco cosa scrive in merito alla decisione di partire assieme a Gianni: «Il mattino successivo, mentre tutti siamo in preda a grande agitazione, si presenta il mio amico di scuola e di collegio, Gianni Castorani. Siamo coetanei e anche lui di famiglia antifascista. Messo al corrente della situazione, decide senza esitare: “se Gigi parte per il Sud, io vado con lui”. Il momento è così grave che non c’è tempo per riflettere. I tedeschi, con l’appoggio dei fascisti, rapidamente prendono in mano la situazione in tutta l’alta Italia».

 

La testimonianza di Luigi continua illustrando la drammaticità del momento: «L’esercito italiano, abbandonato a sé stesso, si disperde per le campagne, cercando abiti civili, sperando di sfuggire ai rastrellamenti. Le famiglie li aiutano come possono ma, nonostante questo, molti non sfuggiranno alla deportazione in Germania, o peggio. Il pericolo è reale; bisogna decidere rapidamente. L’ottimismo per la iniziale, veloce avanzata dell’esercito alleato, l’entusiasmo, che facilmente fa breccia nell’animo dei giovani, unitamente, devo confessarlo ora, ad una buona dose di incoscienza, ci spingono ad accelerare la partenza. Vogliamo, con piena convinzione, dare il nostro contributo per la liberazione dell’Italia dall’oppressore tedesco e fascista».

 

Le date sono impresse nella memoria di Cavinato: «II nostro viaggio inizia tra il 10 e il 15 di settembre (1943), non mi è possibile precisare meglio e tutto avviene in modo così frettoloso e concitato che quasi non abbiamo il tempo per una lacrimuccia». Così inizia il viaggio dei due amici, Gianni e Luigi: alla stazione ferroviaria di Padova salgono su un treno diretto a Bologna, nessuno dei due sa cosa li attende, i pericoli e gli imprevisti sono dietro l’angolo, i fascisti e i tedeschi salgono sui treni e controllano quanti, secondo loro, possono essere dei disertori.

 

foglio matricolare di Gianni Castorani

Foglio matricolare di Gianni Castorani

 

Gianni e Luigi ci metteranno più di due mesi per raggiungere Taranto: il viaggio in treno li porta dal Veneto fino alla località di Silvi Marina in Abruzzo, da lì proseguono sostenuti dalla grande ospitalità e solidarietà delle persone incontrate nel percorso che mai negano loro un pasto caldo e un posto dove dormire la notte. Dormono in fienili, stalle ma anche in case di famiglie ospitali che offrono loro, oltre alla cena, una vera e propria stanza. A Taranto si arruolano come volontari nella Marina Militare il 26 Novembre 1943 e vengono assegnati al Battaglione Bafile anche se in due compagnie diverse, Gianni è incaricato della fureria.

 

Il Battaglione Bafile, dislocato a Gallipoli, fa parte del ricostituito Reggimento S. Marco ed è composto da marinai di leva e da volontari che vengono addestrati tra la fine del 1943 e i primi mesi del 1944. Il 30 marzo 1944 il Battaglione Bafile è pronto per l’impiego con circa 1.200 uomini che partono il 4 Aprile 1944 per raggiungere il fronte nella zona di Cassino. Inizialmente sono alle dipendenze della 4a Divisione del XIII Corpo d’Armata Britannico per rilevare un reparto inglese dislocato a cavallo del fiume Rapido, circa 10 km a nord-est della località dove sorge l’abbazia. Il 16 aprile 1944, la 4a Divisione Inglese è rimpiazzata dalla 2ª Divisione Neozelandese e il Battaglione Bafile passa alle dipendenze della IV Brigata Inglese. Sarà poi ritirato dalla prima linea il 29 maggio 1944 e inviato sul fronte dell’Adriatico alle dipendenze del neonato CIL, Corpo di Liberazione Italiano.

 

Una volta terminata la guerra sul fronte di Cassino, Luigi Cavinato scrive nel suo libro: «Dopo tanti mesi, posso incontrare Gianni e stiamo insieme un’intera giornata. E’ molto magro, ma dice di stare bene. Ci raccontiamo tante cose e so che anche lui, al fronte, ha rischiato la pelle».

 

Il 18 Novembre 2022 al Furiere Ordinario Volontario di Guerra Giovanni Castorani è stata riconosciuta la Medaglia Commemorativa per la Guerra di Liberazione.

 

Attestato

 

 

Il 19 Dicembre 2022 al Furiere Ordinario Volontario Giovanni Castorani è stato riconosciuto il Diploma d’Onore di Combattente per la libertà d’Italia 1943-1945.

 

 

Giovanni Castorani è mancato il 30 luglio 1990 e riposa nel cimitero di Pietrasanta (Lucca) in Versilia.

 

 

 

 

 

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