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Giuseppe Meroni

Giuseppe Meroni nacque a Vignate il 10 giugno 1901. Operaio meccanico, antifascista, dal 1926 al 1936 era stato esule in Francia, dove aveva conosciuto e lavorato con l’ex presidente della Repubblica Sandro Pertini. Rientrato in Italia nel 1937, l’anno successivo si sposava con Teresa Vittoria Ottolina, di Sant’Agata, andando ad abitare in quella frazione di Cassina de’ Pecchi, in un fabbricato noto come “ il palazzetto”. Giuseppe Meroni, durante la Resistenza faceva parte della rete organizzativa del PCI milanese. Era un “politico” e il suo compito consisteva nell’organizzare in Martesana gruppi di giovani partigiani, collegarli e fornir loro assistenza. I fascisti lo tenevano sotto sorveglianza; venne anche arrestato e portato alla caserma della Legione Muti di Melzo, dove, per farlo parlare, subì pesanti percosse.

carta d'identità

Carta d’identità di Giuseppe Meroni, all’epoca vicesindaco di Cassina de’ Pecchi

Testimonianze raccolte
Giuseppe Comi, che fu partigiano della 105a brigata Garibaldi, distaccamento di Cernusco sul Naviglio: «Giuseppe Meroni di Sant’Agata era operaio a Milano. Mi ricordo di alcuni contatti avuti con lui qui a Cernusco. Ci vedavamo all’osteria del “Giuanìn Sirtori”, all’angolo tra piazza Gavazzi e l’attuale via Bourdillon, che era uno dei luoghi di ritrovo degli antifascisti. Col Meroni ci scambiavamo informazioni e ci accordavamo sulle azioni partigiane da intraprendere. Ricordo anche che, andando tutti e due a lavorare a Milano in bicicletta, spesso di mattina lo incontravo sulla statale».

Mario Banfi, uno dei fondatori della Cooperativa “La Speranza” di Cassina de’ Pecchi: «Io sono stato assessore a Cassina de’ Pecchi e Giuseppe Meroni era vicesindaco. Era un compagno molto valido, che aveva fatto tanto per organizzare la Resistenza in Martesana. I fascisti lo tenevano sotto sorveglianza; è stato anche arrestato e portato alla caserma della Muti di Melzo. Per farlo parlare l’hanno anche picchiato di brutto, ma inutilmente».

Amilcare Spagliardi, che nel 1945 aveva vent’anni e la cui famiglia abitava vicino a quella del Meroni: «Giuseppe Meroni era operaio in una ditta di Milano. Dopo la guerra si è saputo che era un militante del PCI e che era stato un organizzatore della Resistenza in Martesana. Era una persona stimata. A Cassina, nei primi anni del dopoguerra ha svolto attività politica e amministrativa. Poi si è trasferito a Gorgonzola».

Carlo Merlini, di Gorgonzola, che fu commissario politico della 105a brigata Garibaldi “Luigi Brambilla”, la cui testimonianza è particolarmente significativa perché ci dà la prova dell’importante ruolo che il Meroni aveva nell’organizzazione della Resistenza in Martesana: «Dopo l’8 settembre 1943, io mi rivolsi a un comunista, Giulio Abbiati, che abitava nel mio stesso caseggiato in viale Monza 102, a Milano, perché volevo andare a combattere in montagna. L’Abbiati mi propose, invece, di recarmi a Gorgonzola a organizzare squadre di sappisti. Mi mise in contatto con il responsabile del PCI dell’Est milanese, che a sua volta mi fece conoscere Giuseppe Meroni di Sant’Agata. La nascita del nostro distaccamento di Gorgonzola avvenne una domenica pomeriggio sotto il cascinotto del compagno Luigi Fossati, con la presenza dello stesso Fossati, del sottoscritto, di Paolo Ghezzi, Luigi Meroni, Francesco Bianchi, Giuseppe Meroni di Sant’Agata e di un compagno della federazione milanese del PCI. In quella riunione fu deciso di costituire il distaccamento di Gorgonzola e dar vita alla 105a brigata Garibaldi. Quando venni individuato dai fascisti, fu Giuseppe Meroni ad avvisarmi del pericolo. Il Meroni, che aveva avuto l’informazione grazie a una nostra spia infiltrata nella Muti, venne a casa mia, ricordo che era una domenica, e mi disse di mettere l’indispensabile in una valigetta e fuggire immediatamente».

Giuseppe Meroni fu, dunque, uno dei primi organizzatori della Resistenza in Martesana. Faceva parte della rete organizzativa del PCI ed era in contatto con il responsabile della zona, probabilmente certo Fabiani (“Pietro”). Zona che, allora, andava da Melzo a Oggiono.

attestato

Attestato in cui si certifica che Giuseppe Meroni fu operaio tornitore alla Isotta Fraschini

Testimonianza della figlia di Giuseppe Meroni, Ambrogia, nata nel 1940: «Mio padre era meccanico specializzato-tornitore. Ha lavorato, tra l’altro, alla Motomeccanica, alla Bianchi, alla fabbrica di automobili Isotta Fraschini. Poi, con l’avvento del fascismo, è andato esule in Francia per una decina di anni, dal 1926 al 1936, dove è entrato in contatto con molti esuli antifascisti, in particolare ha conosciuto e lavorato con l’ex presidente della Repubblica Sandro Pertini. Nel 1937 è rientrato in Italia e l’anno dopo si è sposato con mia madre, Teresa Vittoria Ottolina, che era di Sant’Agata. La famiglia di mio padre era originaria di Gorgonzola, poi si è trasferita a Vignate, dove mio padre è nato il 10 giugno 1901. A Sant’Agata abitavamo in un fabbricato conosciuto come “il palazzetto”. Mio padre, in gioventù aveva frequentato dei corsi professionali presso l’Istituto dei Martinitt, acculturandosi e imparando un mestiere. Era una persona dal carattere buono, schivo. Era credente, ma non sopportava l’alleanza della Chiesa col fascismo. È deceduto il 19 dicembre 1974 a Gorgonzola».

Giorgio Perego

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Biografia [.pdf]

Melzi Luigi
Luigi Melzi

Luigi Melzi nasce a Cernusco sul Naviglio il 30 maggio 1914.
Operaio meccanico, coraggioso antifascista, era sorvegliato e spesso minacciato dai fascisti locali. Dopo l’8 settembre 1943 lasciò Cernusco per andare a combattere nelle formazioni dei partigiani della montagna. Dal 29 maggio 1944 combatté presso il distaccamento “Vercellina”, della 12a Divisione Garibaldi “Nedo”, comandata da Franco Moranino (“Gemisto”). Il Melzi (nome di battaglia “Fraister”) cadde in combattimento il 22 febbraio 1945 alla frazione Bulliana del Comune di Trivero (Vercelli).

Il comandante Gemisto (a sinistra) sulla tomba di Luigi Melzi “Fraister”

Ricordiamo che la 12a Divisione garibaldina “Nedo” era sorta nel Biellese orientale nel maggio-giugno del 1944 dalla riorganizzazione di alcuni battaglioni operanti nella Val Strona e nella Val Sessera, agli ordini di Pietro Pajetta (“Nedo”), caduto in combattimento nel febbraio di quell’anno. La “Nedo”, all’inizio, quand’era ancora una brigata, controllava la zona di Cossato, Vallemosso, Trivero, Coggiola, Pray, Crevacuore, fino a lambire la pianura.
Giorgio Perego

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Alberto Gabellini
Alberto Gabellini

Alberto Gabellini nasce a Cambiago il 4 febbraio del 1916.

Alberto Gabellini

Alberto Gabellini

 

Orfano di padre, ucciso dai fascisti, lavora alla Isotta Fraschini come operaio. Arrestato il 29 aprile del 1937, viene imprigionato a San Vittore e quindi spedito al confino sull’isola di Ponza, dove rimane per quattro anni. Dopo l’8 settembre, entra nella formazione gappista “E. Rubini” e, con il nome di battaglia di “Walter”, compie diverse azioni, tra cui l’eliminazione del gerarca Gerolamo Crivelli avvenuta a Monza il 25 novembre del 1943. A seguito di altre azioni, è costretto a rifugiarsi con i suoi compagni sulle montagne orobiche, dove viene catturato il 14 gennaio del 1944 e tradotto nelle carceri di Bergamo. Condannato dal tribunale fascista alla deportazione in un campo di concentramento in Germania, durante il trasferimento riesce a fuggire e si rifugia a Cambiago, dove riprende la lotta partigiana. Il 4 settembre 1944, insieme a componenti della 103a Brigata Garibaldi, elimina il segretario federale repubblicano di Pisa che si era nascosto a Melzo. Il 6 ottobre “Walter” organizza il disarmo della caserma di Vaprio e il 19 partecipa all’incendio dell’aeroporto di Arcore. Viene arrestato a Monza il 5 gennaio del 1945 e fucilato a Pessano il 9 marzo insieme ad altri 6 combattenti.
La figura di Gabellini è una delle più significative della zona.

I sette martiri di Pessano

L’8 marzo 1945 una SAP (Squadra Azione Partigiana) compie a Pessano un’azione contro il comandante dell’Organizzazione Speer di Pessano, che rimane ferito. La notizia si diffonde rapidamente nel paese, tanto che tutti gli uomini al di sotto dei cinquant’anni fuggono quella stessa sera per timore di un rastrellamento generale. Il giorno successivo, alle 18 circa, su un camion scortato da militari tedeschi e italiani, otto ostaggi provenienti dal carcere di Monza vengono condotti al comando tedesco presso le scuole elementari per essere fucilati sul posto dove era stato ferito l’ufficiale tedesco. Testimoni presenti all’evento raccontano: «Sul camion, incatenati, erano otto giovani, dalle vesti lacere e dal viso smunto per i patimenti e le percosse. Tutti sapevano che in paese, il giorno prima, era stato ferito un ufficiale tedesco. E tutti sapevano cosa doveva accadere, senza avere il coraggio di dirlo…». Sono le 18.50 del 9 marzo quando i fucili delle SS e degli ufficiali repubblichini eseguono la rappresaglia decisa in poche ore e paventata dai paesani in una notte di terrore. Vengono uccisi sette giovani partigiani, tutti della zona o brianzoli, prelevati dal carcere monzese: Alberto Gabellini, detto “Walter”, della 193a e 119a Brigata Garibaldi, 30 anni, di Cambiago; Mario Vago della 182a Brigata Garibaldi, 22 anni, di Busto Arsizio; Romeo Cerizza della 110a Brigata Garibaldi, 22 anni, milanese; Angelo Barzago della 201a Brigata Giustizia e Libertà, 20 anni, di Bussero; Dante Cesana, nome di battaglia “Marco”, sottotenente della 119a Brigata Garibaldi, 25 anni, di Carate Brianza; Claudio Cesana, nome di battaglia “Tito”, sottotenente, 21 anni, di Carate Brianza; Angelo Viganò, nome di battaglia “Tugnin”, sergente della 119a Brigata Garibaldi, 25 anni, di Carate Brianza. L’ottavo prigioniero, Carletto Vismara, un ragazzino, viene graziato solo per la sua giovanissima età, ma viene costretto ad assistere all’eccidio. Grazie al parroco, don Varisco, le salme, invece di essere sepolte in una fossa comune, come era stata deciso dal comando fascista, ricevono una giusta sepoltura nel cimitero di Pessano, dopo la messa celebrata dal parroco stesso alla presenza di tutta la popolazione.

Da sinistra: Mario Vago, Romeo Cerizza, Angelo Barzago

Da sinistra: Mario Vago, Romeo Cerizza, Angelo Barzago

 

Da sinistra: Dante Cesana, Claudio Cesana, Angelo Viganò

 

Dalla fine della guerra, tutti gli anni viene ricordato il martirio di quei giovani antifascisti, con una manifestazione, sempre molto partecipata, promossa dall’ANPI locale e dall’Amministrazione comunale, a cui aderiscono le sezioni ANPI di tutta la Martesana. Caratteristica peculiare di questa manifestazione è la partecipazione di una delegazione da Grancona, nel Vicentino, così spiegata dal presidente dell’ANPI di Pessano: «Venivano qui ogni marzo, e non sapevamo perché. Scoprimmo che molti dei loro ragazzi erano stati amici dei giovani fucilati, compagni di lavoro alla Falck o in altre grandi industrie di allora. E che anche Grancona, l’8 giugno del 1944, vide una strage di giovani partigiani, attirati in un’imboscata, uccisi e gettati nel fiume».

Testimonianza di Rita Caprotti

«Quella mattina Renzo, il fratello di Alberto, era venuto a cercarmi per andare insieme a Pessano. Aveva sentito brutte notizie su suo fratello, sono andata con lui e così l’ho visto, steso a terra con gli altri sei fucilati, aveva ancora sulla testa i segni della tortura, il segno di un morsetto sulla fronte, l’ho ancora chiaro nella mente dopo tanti anni».
Chi parla è Rita Caprotti, staffetta partigiana, nata a Cambiago, in provincia di Milano, il 30 giugno 1924, che così ricorda Alberto Gabellini.

«Ci conoscevamo da sempre, la sua era una famiglia perseguitata, il padre era stato ammazzato dai fascisti nel 1922, la madre si è battuta tanto per questo figlio». Rita ha ben presente quegli anni, orfana di madre fin da piccola, doveva badare ai due fratelli e lavorava alla Magneti Marelli; ricorda che partecipava a riunioni a Cassano e Trezzo sull’Adda, «prendevo il tram con i documenti addosso, nascosti sotto i vestiti», portava il materiale di propaganda nelle fabbriche di Sesto San Giovanni.
«Gabellini lavorava alla Isotta Fraschini, certe mattine si alzava molto presto, alle 4, per preparare il camion con i viveri e i vestiti da portare ai partigiani prima di andare al lavoro. Mi affacciavo alla finestra e lo vedevo caricare il camion, tante volte sono scesa e l’ho aiutato. Poi l’hanno scoperto e non l’ho più visto, ho saputo che l’avevano mandato al confino, a Ponza e poi alle Tremiti e, dopo l’8 settembre era andato in montagna con i partigiani».
Rita dopo la Liberazione ha continuato a fare politica e a impegnarsi nel sindacato, dividendo tutta la sua vita fra questa passione e la famiglia. Ancora oggi, nonostante la non più giovane età, lucidissima e con una tempra da far invidia, è impegnata nel sociale e, come dice lei «si occupa degli anziani».

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Franco De Ferdinando

Franco De Ferdinando nacque a Milano il 14 maggio 1920. Fu partigiano della Divisione Perretta-Puecher in qualità di vicecomandante del distaccamento Eupilio, che operava nella Brianza comasca, da Erba a Cesana. Ricorda De Ferdinando:

«Studente universitario, venni chiamato alle armi nel 1942; incorporato nel 27° Reggimento Artiglieria, ho frequentato il corso allievi ufficiali artiglieria alpina a Bra.
Dispensato per malattia, ho trascorso un mese in convalescenza, non riuscendo così a terminare il corso ufficiali. Rientrato al 27° Artiglieria, fui inviato a un reparto che presidiava lo stabilimento Lagomarsino di Milano dove, il 12 settembre 1943, i tedeschi ci arrestarono e rinchiusero nella caserma di via Vincenzo Monti.
Fuggito dalla caserma, ho raggiunto la mia famiglia, sfollata a Carella, frazione di Eupilio, dove ho iniziato a svolgere attività partigiana. I miei primi contatti li ho avuti con il colonnello Valsecchi, ufficiale degli Alpini, delle Fiamme Verdi, e con Giancarlo Puecher.
Nella zona nella quale operavo era stanziato il 27° Artiglieria, che dopo l’8 settembre 1943 abbandonare armi e munizioni. Primo compito dei partigiani era quello di recuperare materiale bellico e di avviare alla lotta di liberazione il maggior numero di soldati sbandati.
Numerosi furono i rastrellamenti in zona da parte di SS e fascisti.
Il mio gruppo ha anche aiutato nove ebrei (già nascosti nella villa della contessa Olga Ponti Porro, a Canzo) a sconfinare in Svizzera.
Il 24 settembre 1944 venni catturato e Eupilio e ho rischiato di finire i miei giorni davanti a un plotone d’esecuzione già schierato. Con uno stratagemma evitai l’esecuzione e venni rinchiuso per una ventina di giorni in una cella della caserma della GNR di Asso.
Rilasciato in libertà vigilata, mi davo alla macchia. Ho partecipato alla liberazione del partigiano Rinaldo Chiatelli (nome di battaglia Chiari), a diversi scontri armati con tedeschi e fascisti, e alla loro cattura.»

Franco De Ferdinando nel 1966 si trasferì a Cernusco, dove, oltre a essere uno stimato architetto, partecipò attivamente alla vita politica, sociale e culturale.
Si spense nel 2015.

 

Giovanni Castorani

Giovanni Castorani, detto Gianni, nasce a Piazzola sul Brenta, in provincia di Padova, il 3 Novembre 1924. L’8 settembre 1943 Gianni vive a Vaccarino, frazione del Comune di Piazzola sul Brenta, ha quasi 19 anni e segue i corsi di ingegneria meccanica all’Università di Padova, studente temporaneamente esentato dal servizio militare di leva. Ma vista la situazione che vive il Paese dopo l’armistizio, con il suo amico d’infanzia Luigi Cavinato sceglie di non restare alla finestra e di partecipare alla Liberazione dell’Italia. La meta designata è il Sud già liberato dagli angloamericani, a Taranto c’è lo zio di Luigi, il maggiore Silvio Cavinato, ufficiale di Marina, che aiuta i due ragazzi ad arruolarsi come volontari di guerra nel Battaglione Bafile.

 

Gianni Castorani e Luigi Cavinato

Luigi Cavinato ha raccolto i ricordi di questa esperienza in 8 Settembre 1943 – Ricordi indimenticabili della mia vita, ed ecco cosa scrive in merito alla decisione di partire assieme a Gianni: «Il mattino successivo, mentre tutti siamo in preda a grande agitazione, si presenta il mio amico di scuola e di collegio, Gianni Castorani. Siamo coetanei e anche lui di famiglia antifascista. Messo al corrente della situazione, decide senza esitare: “se Gigi parte per il Sud, io vado con lui”. Il momento è così grave che non c’è tempo per riflettere. I tedeschi, con l’appoggio dei fascisti, rapidamente prendono in mano la situazione in tutta l’alta Italia».

 

La testimonianza di Luigi continua illustrando la drammaticità del momento: «L’esercito italiano, abbandonato a sé stesso, si disperde per le campagne, cercando abiti civili, sperando di sfuggire ai rastrellamenti. Le famiglie li aiutano come possono ma, nonostante questo, molti non sfuggiranno alla deportazione in Germania, o peggio. Il pericolo è reale; bisogna decidere rapidamente. L’ottimismo per la iniziale, veloce avanzata dell’esercito alleato, l’entusiasmo, che facilmente fa breccia nell’animo dei giovani, unitamente, devo confessarlo ora, ad una buona dose di incoscienza, ci spingono ad accelerare la partenza. Vogliamo, con piena convinzione, dare il nostro contributo per la liberazione dell’Italia dall’oppressore tedesco e fascista».

 

Le date sono impresse nella memoria di Cavinato: «II nostro viaggio inizia tra il 10 e il 15 di settembre (1943), non mi è possibile precisare meglio e tutto avviene in modo così frettoloso e concitato che quasi non abbiamo il tempo per una lacrimuccia». Così inizia il viaggio dei due amici, Gianni e Luigi: alla stazione ferroviaria di Padova salgono su un treno diretto a Bologna, nessuno dei due sa cosa li attende, i pericoli e gli imprevisti sono dietro l’angolo, i fascisti e i tedeschi salgono sui treni e controllano quanti, secondo loro, possono essere dei disertori.

 

foglio matricolare di Gianni Castorani

Foglio matricolare di Gianni Castorani

 

Gianni e Luigi ci metteranno più di due mesi per raggiungere Taranto: il viaggio in treno li porta dal Veneto fino alla località di Silvi Marina in Abruzzo, da lì proseguono sostenuti dalla grande ospitalità e solidarietà delle persone incontrate nel percorso che mai negano loro un pasto caldo e un posto dove dormire la notte. Dormono in fienili, stalle ma anche in case di famiglie ospitali che offrono loro, oltre alla cena, una vera e propria stanza. A Taranto si arruolano come volontari nella Marina Militare il 26 Novembre 1943 e vengono assegnati al Battaglione Bafile anche se in due compagnie diverse, Gianni è incaricato della fureria.

 

Il Battaglione Bafile, dislocato a Gallipoli, fa parte del ricostituito Reggimento S. Marco ed è composto da marinai di leva e da volontari che vengono addestrati tra la fine del 1943 e i primi mesi del 1944. Il 30 marzo 1944 il Battaglione Bafile è pronto per l’impiego con circa 1.200 uomini che partono il 4 Aprile 1944 per raggiungere il fronte nella zona di Cassino. Inizialmente sono alle dipendenze della 4a Divisione del XIII Corpo d’Armata Britannico per rilevare un reparto inglese dislocato a cavallo del fiume Rapido, circa 10 km a nord-est della località dove sorge l’abbazia. Il 16 aprile 1944, la 4a Divisione Inglese è rimpiazzata dalla 2ª Divisione Neozelandese e il Battaglione Bafile passa alle dipendenze della IV Brigata Inglese. Sarà poi ritirato dalla prima linea il 29 maggio 1944 e inviato sul fronte dell’Adriatico alle dipendenze del neonato CIL, Corpo di Liberazione Italiano.

 

Una volta terminata la guerra sul fronte di Cassino, Luigi Cavinato scrive nel suo libro: «Dopo tanti mesi, posso incontrare Gianni e stiamo insieme un’intera giornata. E’ molto magro, ma dice di stare bene. Ci raccontiamo tante cose e so che anche lui, al fronte, ha rischiato la pelle».

 

Il 18 Novembre 2022 al Furiere Ordinario Volontario di Guerra Giovanni Castorani è stata riconosciuta la Medaglia Commemorativa per la Guerra di Liberazione.

 

Attestato

 

 

Il 19 Dicembre 2022 al Furiere Ordinario Volontario Giovanni Castorani è stato riconosciuto il Diploma d’Onore di Combattente per la libertà d’Italia 1943-1945.

 

 

Giovanni Castorani è mancato il 30 luglio 1990 e riposa nel cimitero di Pietrasanta (Lucca) in Versilia.

 

 

 

 

 

Beretta Cesare
Cesare Beretta

Io, Ulderico e Albano
Storia del partigiano Cesare Beretta

 

“… L’arma buona è il cervello…”
Cesare Beretta

Cesare Beretta nasce a Pioltello il 20 novembre 1924. Non ancora ventenne decide di salire in montagna per dare il suo contributo alla liberazione del paese. Una serie rocambolesca di coincidenze lo porta in contatto con alcune staffette partigiane di Saluzzo in Piemonte. Parte da Pioltello a fine maggio 1944 insieme a Colombo Ulderico (1925), nome di battaglia “Ulderico”, e Spada Mario (1924) nome di battaglia “Albano”, mentre quello di Cesare sarà “Alfredo”. Dopo una serie di collegamenti con alcune bande partigiane riesce ad approdare al Montoso ed entra ufficialmente nella IV Brigata Garibaldi I Divisone Cuneo “Leo Lanfranco”.

Cesare Beretta (il secondo da sinistra) con alcuni compagni partigiani al Montoso

Resta in montagna fino all’aprile del 1945, quando il giorno 23 viene dato l’ordine di partire per la liberazione di Torino. Sono mesi faticosi, di sacrifici e sofferenze, rischi e paure, la pressione militare di tedeschi e fascisti non lascia mai tregua, ma sono anche momenti di formazione umana e politica: il legame di fratellanza con i compagni partigiani anche di diverse tendenze politiche, il rapporto trasparente e profondo con la popolazione, il rispetto della disciplina saranno tutti elementi determinanti per l’esperienza politica del dopoguerra.

A sinistra: Montoso, 21 marzo 1943
A destra: il monumento alla Resistenza al Montoso (Bagnolo Piemonte)

Dopo aver consegnato le armi agli Alleati, ritorna a Pioltello il 10 maggio 1945. La situazione economica dopo vent’anni di fascismo e l’eredità della guerra è estremamente difficile, inoltre per Cesare c’è l’aggravante politica: pur avendo contribuito alla Liberazione e al futuro del nostro Paese, la sua militanza comunista gli porterà non pochi problemi nella ricerca del lavoro. Caparbietà e tenacia, però, sono aspetti determinanti del carattere di Cesare.
Nel 1946 va a lavorare da un artigiano a Milano, in via Castaldi, dove rimane fino al 1948. Per oltre due anni lavora in una segheria in zona Martesana e nel 1950 viene assunto come muratore nella Cooperativa edile Clur; dopo una serie di vicissitudini politico-sindacali, entra nella ditta Sailea, in via Como a Milano, dove fa il muratore per oltre 20 anni. Nel frattempo, nel 1962, si sposa con Giuseppina Lazzaroni da cui avrà due figli. Nel 1975 si sposta alla Sige, dove resta fino al 1986, anno in cui va in pensione. L’attività politica nel dopoguerra continua nella locale sezione del PCI di Pioltello, sia come semplice militante, attraverso la diffusione dell’«Unità», sia nelle rappresentanze istituzionali: viene eletto consigliere comunale dal 1958 al 1962 e per anni è nel consiglio dell’Asilo Gorra e dell’ECA a Pioltello, contribuendo con la propria correttezza, trasparenza ed etica ad un’idea di politica onesta e al servizio degli altri.
Nel 1984 si trasferisce a Cernusco dove vive tutt’ora, distante dalla mondanità politica ma sempre pronto a dare un contributo per non farci dimenticare la nostra storia… e il nostro futuro.
A cura di Radaelli Danilo

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Video: Io, Ulderico e Albano…

Antonio Benelli

Antonio Benelli nasce a Sergnano (Cremona) il 4 maggio 1905. Chiamato alle armi l’8 giugno 1925, in fanteria, viene mandato in congedo anticipato nell’agosto 1926 col grado di caporale mitragliere. Richiamato alle armi nel marzo 1939, viene dispensato nell’aprile successivo e ricollocato in congedo illimitato. Nel frattempo Antonio, operaio in una impresa di Milano, si è trasferito a Cernusco, in via Cavour 5, dove abita con la moglie Caterina Mazzucchi e i tre figli, Luciano, Mariangela e Giacomina. Nell’ottobre 1943 lascia Cernusco per andare a combattere, da partigiano, presso la N. 1 Special Force, un’unità del SOE-SOM (Special Operatios Executive – Special Operations Mediterranean) delle Forze armate britanniche. Il SOE è un corpo militare autonomo e volontario creato durante la seconda guerra mondiale con lo scopo di operare clandestinamente in territorio nemico abitato da popolazione almeno in parte amica. In Italia, fino a quel momento esclusa dalle operazioni del SOE, nell’ottobre 1943 arriva un’unità, la N. 1 Special Force, che si stanzia in Puglia, dove viene installata una base per organizzare operazioni nelle zone occupate dai nazifascisti, dando supporto alla resistenza armata al fine di potenziarla e ottenere la cooperazione per azioni di guerriglia e sabotaggio. Le missioni della N. 1 Special Force, al comando del colonnello Hewitt, sono composte da 217 militari britannici integrati da volontari italiani, tra cui, appunto, Antonio Benelli. Dell’ultima sua missione, la terza, troviamo notizia nel testo memorialistico Partigiani penne nere scritto da Enrico Martini, il mitico Mauri comandante della brigata partigiana autonoma 1° Gruppo Divisioni Alpine nell’Alto Monferrato. Mauri ricorda quando, il 3 agosto 1944, Benelli, nome di battaglia Antonio guastatore o Antonio paracadutista, viene paracadutato nelle sue formazioni in qualità di istruttore di sabotaggio insieme ad altri tre componenti: Mimmo Antonelli, capo missione, Giorgio, radiotelegrafista, e Mario, altro sabotatore. Così viene descritto:

«Mando al capitano Tino il paracadustista Antonio perché addestri i guastatori della nuova divisione. Antonio arriva da Agliano con la faccia ricoperta di bende, perché una notte, non ricordandosi più di aver fatto saltare il ponte a Rocchetta Belbo, vi si è inoltrato a tutta velocità in bicicletta e ha fatto un volo che gli è costato la rottura della mandibola. […] Antonio fa l’addestratore in un modo tutto suo particolare. Fa volteggiare sul naso degli allievi i suoi ordigni esplosivi e se qualcuno ha ancora la forza di distrarsi gli fa fischiare a un dito dall’orecchio un colpo di pistola. Il corso è eminentemente pratico e Antonio insegna praticamente l’uso delle matite e degli altri aggeggi che esplodono a tempo.»

Mauri nelle sue pagine racconta anche il tragico incidente in cui il 20 novembre 1944 Antonio perde la vita, insieme ad altri sette partigiani, a causa dello scoppio accidentale di una granata. Il feroce rastrellamento nazifascista in corso da ottobre nell’Alto Monferrato impedisce le esequie, che avverranno a liberazione avvenuta. Una lapide posta ad Agliano d’Asti ricorda i nomi degli otto caduti: Antonio-Antonio Benelli, Kyra-Arturo Daidola, Edo-Vittorio Amato, Tigre-Giuseppe Ghignone, Nello-Giuseppe Gullo, Romeo-Giuseppe Imerito, Veli-Giovanni Martinengo, Gino-Virginio Coppo.

Il 23 aprile 1947 ad Antonio Benelli viene concessa la Medaglia d’argento alla memoria al Valor militare.

Il 2 gennaio 1949 la salma viene traslata dal cimitero di Nizza Monferrato a quello di Cernusco sul Naviglio.

Antonio Benelli, grazie all’egregio lavoro di ricerca del professore e storico Giorgio Perego, viene rinvenuto anche nelle pagine de Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio. Nella finzione letteraria Antonio “il sabotatore” compare tra le formazioni garibaldine, dove è stato inviato per compiere azioni di sabotaggio, nei capitoli IX, X, XVI.

Capitolo IX. Nell’episodio della cattura fortuita da parte dei partigiani garibaldini di quattro soldati il commissario dice ai compagni:

«Ora è facile prevedere gli eventi. Io conosco i maledetti tedeschi. Maledetti sì ma non mollano mai i loro uomini. Una voce nuova disse: – È verissimo, i tedeschi non si mollano mai – Johnny si voltò e si vide di fronte un nuovo, un trentenne supercilious; con spessi soffici baffi di foggia e colore inglese, distintamente in borghese e senza la minima traccia di partigianato. Johnny notò che stava attaccato ai capi ed evitava accuratamente di trovarsi immischiato ai semplici, parlava con una molle, compiaciuta cadenza lombarda, ma i suoi occhi avevano lampi metallici. Il maresciallo Mario informò che si trattava di Antonio, Antonio il sabotatore. Alla qualificazione Johnny e gli altri ruotarono di nuovo verso lui, come a cercargli e scoprirgli indosso gli emblemi ed i carismi della sua specializzazione. – Dev’essere un elemento di primissimo ordine, – bisbigliava il maresciallo. – Ha portato due valige piene di strumenti per il suo lavoro. E belle valige -, Antonio il sabotatore sapeva che parlavano di lui e incrociò a mezza distanza, fluttering in his strict-contained airs».

Capitolo X. Mentre i tedeschi stanno attaccando i partigiani per liberare i loro commilitoni, Fenoglio scrive:

«Il Biondo dava consigli di calma e freddezza, di tempo a josa, i tedeschi non avrebbero certamente attaccato nottetempo. – È vero, – disse Antonio, il sabotatore. – I tedeschi non attaccano mai di notte, in questo sono come i pellirosse -. Era distinto, gelido, didattico. – Antonio, tu sabotatore, sei arrivato al momento giusto. Sabota tutto il sabotabile -. E Antonio andò a sabotare i camions».

Capitolo XVI. Tra le pagine più intense de Il partigiano Johnny, Fenoglio rievoca l’incidente di Agliano d’Asti, che causò la morte di Antonio Benelli e di altri sette partigiani. Nella finzione letteraria Fenoglio fa accadere l’incidente a Mango, le vittime sono sei e l’episodio è temporalmente collocato prima della presa di Alba (10 ottobre 1944). Sono invece fedeli al vero la causa dell’incidente, avvenuto durante le prove di un nuovo lanciagranate, e la morte di Kyra (Arturo Daidola).

Da Perego Giorgio, Cernuschesi partigiani della montagna. Il nostro Antonio Benelli nelle pagine di Beppe Fenoglio

Pietro Bastanzetti

Pietro Bastanzetti nasce a Vittorio Veneto nel 1901, ma cresce a Milano. A dodici anni inizia a lavorare e di sera studia. Lavora come capo reparto alla Motomeccanica di via Oglio a Milano. Nel 1934 si sposa e si trasferisce a Saronno. Nel 1943 gli operai lo eleggono nel primo nucleo del consiglio di fabbrica . Per la partecipazione agli scioperi del 1943-44 e la lotta antifascista viene arrestato. Inviato nel campo di sterminio di Mauthausen-Gusen, riuscirà a sopravvivere per poco più di due mesi. Muore a Gusen il 2 giugno 1944.

L’impegno e la lotta

Pietro Bastanzetti non aderisce al Partito Fascista. Nel 1943 accoglie con esultanza la caduta di Mussolini, spera in un ritorno alla democrazia. Crea una commissione sindacale all’interno dell’azienda, ma l’armistizio pone fine a tutto. Entra in clandestinità, si oppone al regime, sostiene la lotta partigiana, promuove gli scioperi del 1943 e del 1944.

Le conseguenze

La reazione non tarda ad arrivare: il 17 marzo 1944 Pietro è arrestato in fabbrica. Solo dopo due giorni la moglie riesce a sapere che è rinchiuso nel carcere di San Vittore. Lunedì 20 è trasferito a Bergamo, alla caserma del 78° fanteria.

In carcere

Riceve qualche rapida visita sotto la sorveglianza dei soldati tedeschi. Un giorno giunge un manovale di fonderia e si offre di andare in Germania al suo posto. Bastanzetti rifiuta per evitare rappresaglie. Lo sconosciuto se ne va con le lacrime agli occhi.

La deportazione

Il 5 aprile 1944, con oltre 400 compagni, parte da Bergamo, destinazione Mauthausen. All’arrivo, a scopo dimostrativo, il primo di loro viene fatto sbranare dai cani. Vengono spogliati, rasati, mandati alle docce.

A Gusen

Pietro è assegnato al sottocampo di Gusen I. È un bravo meccanico, lavora nella fabbrica di aerei Messerschmitt, in umide caverne scavate da altri deportati, in condizioni terribili: violenza fisica e psicologica, turni di lavoro massacranti, alimentazione inadeguata, malattia, solitudine e disperazione.

La fine

Il 1° giugno 1944, in condizioni pietose, ammalato di risipola e broncopolmonite, Pietro viene portato al revier da Angelo Caserini e Bruno Bagatta, ma non lo accettano, non è abbastanza grave. La mattina dopo, i compagni lo vedono sopra un mucchio di cadaveri, davanti al forno crematorio.

Il lascito

Presagendo la fine, Pietro aveva consegnato a Bruno due cerini per i figli, ma ben altra doveva essere la sua eredità. La troviamo nell’impegno instancabile del figlio Giancarlo, guida appassionata di innumerevoli pellegrinaggi civili a Mauthausen e Gusen. Ogni volta che narra la vicenda del padre, rinnova il dolore di una perdita insanabile, ma Pietro lo ascolta e gli sorride dal cielo di Mauthausen, perché il suo sacrificio non è stato vano.

Associazione Roberto Camerani

Materiale disponibile

Biografia [.pdf]

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