Pietro Bastanzetti
Pietro Bastanzetti nasce a Vittorio Veneto nel 1901, ma cresce a Milano. A dodici anni inizia a lavorare e di sera studia. Lavora come capo reparto alla Motomeccanica di via Oglio a Milano. Nel 1934 si sposa e si trasferisce a Saronno. Nel 1943 gli operai lo eleggono nel primo nucleo del consiglio di fabbrica . Per la partecipazione agli scioperi del 1943-44 e la lotta antifascista viene arrestato. Inviato nel campo di sterminio di Mauthausen-Gusen, riuscirà a sopravvivere per poco più di due mesi. Muore a Gusen il 2 giugno 1944.
L’impegno e la lotta
Pietro Bastanzetti non aderisce al Partito Fascista. Nel 1943 accoglie con esultanza la caduta di Mussolini, spera in un ritorno alla democrazia. Crea una commissione sindacale all’interno dell’azienda, ma l’armistizio pone fine a tutto. Entra in clandestinità, si oppone al regime, sostiene la lotta partigiana, promuove gli scioperi del 1943 e del 1944.
Le conseguenze
La reazione non tarda ad arrivare: il 17 marzo 1944 Pietro è arrestato in fabbrica. Solo dopo due giorni la moglie riesce a sapere che è rinchiuso nel carcere di San Vittore. Lunedì 20 è trasferito a Bergamo, alla caserma del 78° fanteria.
In carcere
Riceve qualche rapida visita sotto la sorveglianza dei soldati tedeschi. Un giorno giunge un manovale di fonderia e si offre di andare in Germania al suo posto. Bastanzetti rifiuta per evitare rappresaglie. Lo sconosciuto se ne va con le lacrime agli occhi.
La deportazione
Il 5 aprile 1944, con oltre 400 compagni, parte da Bergamo, destinazione Mauthausen. All’arrivo, a scopo dimostrativo, il primo di loro viene fatto sbranare dai cani. Vengono spogliati, rasati, mandati alle docce.
A Gusen
Pietro è assegnato al sottocampo di Gusen I. È un bravo meccanico, lavora nella fabbrica di aerei Messerschmitt, in umide caverne scavate da altri deportati, in condizioni terribili: violenza fisica e psicologica, turni di lavoro massacranti, alimentazione inadeguata, malattia, solitudine e disperazione.
La fine
Il 1° giugno 1944, in condizioni pietose, ammalato di risipola e broncopolmonite, Pietro viene portato al revier da Angelo Caserini e Bruno Bagatta, ma non lo accettano, non è abbastanza grave. La mattina dopo, i compagni lo vedono sopra un mucchio di cadaveri, davanti al forno crematorio.
Il lascito
Presagendo la fine, Pietro aveva consegnato a Bruno due cerini per i figli, ma ben altra doveva essere la sua eredità. La troviamo nell’impegno instancabile del figlio Giancarlo, guida appassionata di innumerevoli pellegrinaggi civili a Mauthausen e Gusen. Ogni volta che narra la vicenda del padre, rinnova il dolore di una perdita insanabile, ma Pietro lo ascolta e gli sorride dal cielo di Mauthausen, perché il suo sacrificio non è stato vano.
Associazione Roberto Camerani
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